Torna ai soci la scelta sull’amministratore unico
pIl decreto correttivo del Testo unico delle partecipate (il decreto legislativo 175/2016), approvato dal Consiglio dei ministri venerdì 17 febbraio, ha mutato considerevolmente gli obblighi cui le partecipate sono sottoposte.
Tra le modifiche più significative, vi è quella che riguarda la composizione dell’organo amministrativo. La soluzione adottata dal decreto legislativo 175 è stata di imporre, come regola generale, quella secondo cui l’organo amministrativo deve essere costituito («di norma», recita l’articolo 11, comma 2) da un amministratore unico. A questa regola – che risulta già smorzata rispetto alla formulazione contenuta in uno dei primi progetti di decreto, dove si parlava espressamente di “obbligo” – fa però su- bito seguito un’eccezione: con apposito decreto del Presidente del Consiglio – dispone l’articolo 11, comma 3 – che si sarebbe dovuto emanare entro il 23 marzo 2017, avrebbero dovuto essere stabiliti i criteri in base ai quali, «per specifiche ragioni di adeguatezza organizzativa», le società avrebbero potuto optare per un sistema collegiale di amministrazione, costituito da un cda composto da tre o cinque membri.
La norma è apparsa da subito di forte impatto, poiché ha invertito il criterio allora in vigo- re (previsto dal Dl 95/2012), secondo cui era l’opzione per l’amministratore unico ad essere residuale, mentre la regola era rappresentata dal sistema collegiale.
Il termine per l’adeguamento degli statuti a questa nuova disciplina scadeva il 31 dicembre 2016, ma lo sfasamento temporale rispetto all’adozione del Dpcm, a seguito del quale si sarebbe potuto tornare (rectius, rimanere) in un sistema collegiale, ha indotto molte società a far decorrere inutilmente tale termine. Ciò è stato reso possibile anche dalla mancanza di una sanzione chiara per la violazione di questo obbligo: in precedenti interventi legislativi era prevista la decadenza immediata degli organi in carica e la nullità degli atti compiuti; in questo caso nulla è stato disciplinato, e dunque in mancanza di una delibera assembleare di modifica dello statuto, si ha la permanenza degli amministratori in carica e la validità degli atti compiuti. La prosecuzione degli organi attuali implicherebbe sotanto la (teorica) responsabilità degli stessi amministratori per non aver convocato l’assemblea ai fini dell’adeguamento statutario, ovvero del socio pubblico per non aver deliberato le modifiche richieste dalla nuova normativa.
Il decreto correttivo interviene sul comma 3 dell’articolo 11, eliminando ogni riferimento all’emanando Dpcm. Nel quadro attuale, la scelta per un sistema collegiale di amministrazione (oppure per i modelli dualistico o monistico), è dunque interamente rimessa all’assemblea dei soci, i quali dovranno però giustificare tale scelta per ragioni di adeguatezza or- ganizzativa e «tenendo conto delle esigenze di contenimento dei costi». La scelta è stata quella di privilegiare l’autonomia delle singole società, senza criteri esterni predeterminati. In tal modo, assume rilievo centrale la motivazione che ogni società dovrà dare per (passare, in realtà) rimanere con un consiglio di amministrazione, in cui si dovrà contemperare non solo istanze di adeguatezza organizzativa – che andrà dimostrata con elementi specifici – ma anche (novità del correttivo) esigenze di contenimento dei costi – dovendosi quindi dare atto nella discussione dell’assemblea straordinaria che la spending review interna non giustifica, in ragione della dimensione e della natura dell’attività esercitata, il passaggio all’amministratore unico.
IL MANDATO L’assemblea dovrà effettuare e motivare la decisione di affidarsi a una guida monistica oppure a una collegiale