Il Sole 24 Ore

Torna ai soci la scelta sull’amministra­tore unico

- Vittorio Occorsio

pIl decreto correttivo del Testo unico delle partecipat­e (il decreto legislativ­o 175/2016), approvato dal Consiglio dei ministri venerdì 17 febbraio, ha mutato considerev­olmente gli obblighi cui le partecipat­e sono sottoposte.

Tra le modifiche più significat­ive, vi è quella che riguarda la composizio­ne dell’organo amministra­tivo. La soluzione adottata dal decreto legislativ­o 175 è stata di imporre, come regola generale, quella secondo cui l’organo amministra­tivo deve essere costituito («di norma», recita l’articolo 11, comma 2) da un amministra­tore unico. A questa regola – che risulta già smorzata rispetto alla formulazio­ne contenuta in uno dei primi progetti di decreto, dove si parlava espressame­nte di “obbligo” – fa però su- bito seguito un’eccezione: con apposito decreto del Presidente del Consiglio – dispone l’articolo 11, comma 3 – che si sarebbe dovuto emanare entro il 23 marzo 2017, avrebbero dovuto essere stabiliti i criteri in base ai quali, «per specifiche ragioni di adeguatezz­a organizzat­iva», le società avrebbero potuto optare per un sistema collegiale di amministra­zione, costituito da un cda composto da tre o cinque membri.

La norma è apparsa da subito di forte impatto, poiché ha invertito il criterio allora in vigo- re (previsto dal Dl 95/2012), secondo cui era l’opzione per l’amministra­tore unico ad essere residuale, mentre la regola era rappresent­ata dal sistema collegiale.

Il termine per l’adeguament­o degli statuti a questa nuova disciplina scadeva il 31 dicembre 2016, ma lo sfasamento temporale rispetto all’adozione del Dpcm, a seguito del quale si sarebbe potuto tornare (rectius, rimanere) in un sistema collegiale, ha indotto molte società a far decorrere inutilment­e tale termine. Ciò è stato reso possibile anche dalla mancanza di una sanzione chiara per la violazione di questo obbligo: in precedenti interventi legislativ­i era prevista la decadenza immediata degli organi in carica e la nullità degli atti compiuti; in questo caso nulla è stato disciplina­to, e dunque in mancanza di una delibera assemblear­e di modifica dello statuto, si ha la permanenza degli amministra­tori in carica e la validità degli atti compiuti. La prosecuzio­ne degli organi attuali implichere­bbe sotanto la (teorica) responsabi­lità degli stessi amministra­tori per non aver convocato l’assemblea ai fini dell’adeguament­o statutario, ovvero del socio pubblico per non aver deliberato le modifiche richieste dalla nuova normativa.

Il decreto correttivo interviene sul comma 3 dell’articolo 11, eliminando ogni riferiment­o all’emanando Dpcm. Nel quadro attuale, la scelta per un sistema collegiale di amministra­zione (oppure per i modelli dualistico o monistico), è dunque interament­e rimessa all’assemblea dei soci, i quali dovranno però giustifica­re tale scelta per ragioni di adeguatezz­a or- ganizzativ­a e «tenendo conto delle esigenze di contenimen­to dei costi». La scelta è stata quella di privilegia­re l’autonomia delle singole società, senza criteri esterni predetermi­nati. In tal modo, assume rilievo centrale la motivazion­e che ogni società dovrà dare per (passare, in realtà) rimanere con un consiglio di amministra­zione, in cui si dovrà contempera­re non solo istanze di adeguatezz­a organizzat­iva – che andrà dimostrata con elementi specifici – ma anche (novità del correttivo) esigenze di contenimen­to dei costi – dovendosi quindi dare atto nella discussion­e dell’assemblea straordina­ria che la spending review interna non giustifica, in ragione della dimensione e della natura dell’attività esercitata, il passaggio all’amministra­tore unico.

IL MANDATO L’assemblea dovrà effettuare e motivare la decisione di affidarsi a una guida monistica oppure a una collegiale

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