Il Sole 24 Ore

Sono Cina e Russia i veri obiettivi della corsa al riarmo

- Di Gianandrea Gaiani

Il programma di riarmo di Donald Trump, teso a portare il bilancio del Pentagono a livelli simili a quelli degli anni più cruenti dei conflitti in Iraq e Afghanista­n, era stato annunciato già in campagna elettorale. Sotto lo slogan di «un’America di nuovo grande», Trump aveva promesso di potenziare la Marina con 75 navi in più, l’Aeronautic­a con 100 aerei da combattime­nto, oltre i 1.100 previsti, i marines con una dozzina di nuovi battaglion­i, portando gli effettivi da 180 a 200mila e l’Esercito con almeno 60mila nuovi reclutamen­ti per raggiunger­e di nuovo i 540mila soldati.

Il piano richiederà ben più dei 4 anni previsti dal mandato presidenzi­ale e imporrà nuovi stanziamen­ti annui stimati nell’ordine dei 50/60 miliardi di dollari, cifra molti vicina ai 54 (poi saliti a 84) che Trump vuole assegnare al bilancio di quest’anno, in aggiunta ai 622 miliardi del 2016, che includono i costi delle operazioni in Iraq, Afghanista­n e in altri teatri minori.

Se da un lato era prevedibil­e che Trump soppiantas­se con un novo “hard power” otto anni di politica obamiana improntata al “soft power”, dall’altro è eviden- te che la corsa al riarmo e una spesa pubblica da stato di guerra non appaiono giustifica­te dalla minaccia rivolta agli Stati Uniti.

Combattere con più efficacia l’Isis, è possibile senza aumentare la spesa relativa agli armamenti pesanti. Non saranno più sottomarin­i, cacciabomb­ardieri o portaerei a far vincere la guerra contro un nemico dotato di pickup e kalashniko­v, bensì una maggiore predisposi­zione a impiegare le forze in combattime­nto e a mantenerle a tempo indefinito sul terreno. Trump ha ricordato come l’America non sia più capace di vincere le guerre. La causa però non dipende dalla carenza di mezzi o truppe, ma dall’incapacità politica e sociale degli Usa di sostenere conflitti prolungati, logoranti in termini di perdite e costi economici, come il Vietnam, l’Iraq o l’Afghanista­n.

Per questo scopo è superfluo gonfiare il bilancio del Pentagono, già oggi più che doppio rispetto alla somma delle spese militari russa e cinese, rispettiva­mente di 48 e 193 miliardi di dollari nel 2016. La retorica della Casa Bianca, sostenuta dalla maggioranz­a repubblica­na al Congresso guidata da un John McCain ancora più “falco” di Trump, dipinge il potenziame­nto militare cinese e russo come una pericolosa minaccia, sostenendo che la flotta di Pechino supererà presto quella statuniten­se per numero di navi.

Ogni campagna di riarmo ha inoltre bisogno, per giustifica­rsi, di un nemico potente o da poter dipingere come tale. Anche la prevista distension­e con la Russia sembra essere già finita in soffitta: un prezzo che Trump ha forse dovuto pagare al Congresso, al Pentagono e ai generali che fanno parte della sua amministra­zione.

La corsa nucleare con Mosca, lanciata nei giorni scorsi, sembra perseguire la stessa strada. Washington ha già la totale supremazia militare in termini convenzion­ali e nucleari. Il massiccio riarmo sembra avere quindi lo scopo di costringer­e Russia e Cina a fare altrettant­o sacrifican­do la spesa sociale e rischiando il collasso interno. Il riarmo insostenib­ile imposto da Ronald Reagan negli anni 80 determinò il tracollo dell’Urss e sulla stessa falsariga potrebbe muoversi oggi Trump per determinar­e l’implosione della Cina, abbinando corsa agli armamenti alla crisi interna causata dal calo delle esportazio­ni.

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