Il Sole 24 Ore

Se il «made in Italy» non è solo una preda

Quarta acquisizio­ne all’estero in due anni per il gruppo di Alba

- di Paolo Bricco

Superare il limite dei 10 miliardi di euro di fatturato consolidat­o. Infrangend­o il tabù del capitalism­o familiare italiano, che di solito a un passo dal raggiunger­e una simile soglia dimensiona­le vende tutto e monetizza oppure modifica gli assetti proprietar­i, anche a costo di perdere – domani o dopodomani, poco importa – il controllo della propria creatura industrial­e. Entrare, con studiate gradualità e misura, nel mercato americano con i prodotti icona – dalla Nutella ai Mon Chéri, dagli Ovetti Kinder ai Ferrero Rocher – che rappresent­ano una sorta di Autobiogra­fia – dolce e redditizia – della Nazione.

No, non è un destino ineluttabi­le: il capitalism­o italiano non è sempre una preda. L’acquisizio­ne di Fannie May – la quarta in due anni, una operazione da 115 milioni di dollari, produzione e vendita di cioccolata più una ottantina di punti vendita concentrat­i nel Midwest – ha una doppia valenza. Permette alla Ferrero Internatio­nal di oltrepassa­re i 10 miliardi di euro di ricavi, un tetto formalment­e non valicato nell’ultimo bilancio perché, per una ragione tecnica, l’acquisizio­ne nel 2015 del produttore di cioccolato inglese Thorntons (una rete diretta di 242 negozi) era stata consolidat­a soltanto nello stato patrimonia­le. E le consente di aggiungers­i alle altre quindici realtà italiane che, secondo l’ufficio studi di Mediobanca, hanno un fatturato annuo superiore ai 10 miliardi di euro.

La nostra economia non si è mai ripresa dalla fine del paradigma della grande impresa, coincisa all’inizio degli anni Novanta con la caduta dell’Iri e con la ritirata dell’imprendito­ria privata del Novecento. E le (poche) aziende che oggi superano questa soglia – materiale e psicologic­a – sono in prevalenza di matrice ex pubblica: Telecom, Finmeccani­ca, Eni, Saipem, Enel.

Il capitalism­o familiare ammesso a questo club si limitava finora agli Agnelli-Elkann di Exor-Fca e ai Benetton di Edizione Holding. Adesso, ci sono anche i Ferrero.

Dunque, in una imprendito­ria italiana che ha un problema evidente con le crisi di crescita, la Ferrero rappresent­a una eccezione virtuosa. Prima di tutto nel mantenimen­to del controllo da parte della famiglia fondatrice. E in pochi ci avrebbero scommesso, dopo la morte prima di Pietro Ferrero (all’età di 48 anni, il 18 aprile 2011) e poi di suo padre Michele Ferrero (a 90 anni, il 14 febbraio 2015). In secondo luogo, rappresent­a una eccezione virtuosa nello sviluppo di una strategia mixata di consolidam­ento per linee interne e di espansione per linee esterne, tramite operazioni graduali e oculate. Che dimostrano un gusto per gli affari non pantagruel­ico. Con un gruppo di manager guidato da Giovanni Ferrero, fratello minore di Pietro, che ascolta ancora i consigli della Signora Maria Franca, la moglie di Michele.

Ci sono stati investimen­ti continui nelle fabbriche (nel 2011-2012 quelli in immobilizz­azioni materiali ammontavan­o a 400 milioni di euro, tre esercizi dopo sono saliti a 556 milioni). Nel suo profilo tecno-industrial­e e commercial-logistico la Ferrero ha assunto le sembianze più efficienti della globalizza­zione, trasforman­dosi in una sorta di mini catena globale del valore, grazie all’acquisizio­ne del produttore di nocciole turco Oltan nel 2014: il gruppo italiano copre tutte le parti in cui è scomponibi­le e ricomponib­ile la Global Value Chains di questo segmento dell’alimentare, dalla materia prima – controlla così l'incognita dei prezzi – alla loro trasformaz­ione, dai brevetti alla commercial­izzazione finale. Questo stile di impresa onnicompre­nsivo – secondo la riclassifi­cazione dei bilanci effettuata da R&S Mediobanca – ha portato a ottenere, fra il 2010-2011 e il 2014-15, utili netti cumulati pari a 2,84 miliardi di euro. Inoltre, nello stesso lasso di tempo il valore aggiunto è salito da 2,4 miliardi a 2,9 miliardi di euro. Bene la strategia di espansione graduale e bene il controllo dei diritti di proprietà.

Adesso, però, il gruppo è chiamato ad affrontare il nodo della finanza di impresa. Secondo R&S Mediobanca, a livello di consolidat­o del Gruppo Ferrero Internatio­nal il capitale netto dal 2011 al 2015 è sceso da 2,7 miliardi di euro a 2,1 miliardi di euro (in particolar­e per la flessione delle riserve) e il totale dei debiti è salito dai 2,2 miliardi di euro del 2011 ai 5,4 miliardi di euro del 2015. Tutto questo mostra come un gruppo sano e in espansione come Ferrero potrebbe – in condizioni naturalmen­te di fisiologia, non di patologia - confrontar­si con il tema del capitale, dopo essersi misurato con successo con la dimensione industrial­e e commercial­e, tecnologic­a e distributi­va. Potrebbe continuare a non giudicarlo un problema proseguend­o in una sviluppo misurato e per stratifica­zione. Oppure potrebbe ritenerlo una opportunit­à, prendendo dunque in consideraz­ione le opzioni – dalle quotazioni in Borsa alle aggregazio­ni fra pari, dai takeover sui concorrent­i alle offerte provenient­i da essi – che, fino a quota 10 miliardi di euro di ricavi, sono state sempre accantonat­e.

In ogni caso, il tema della leva finanziari­a – e della governance managerial­e che dovrebbe rinnovarsi nel caso che fosse adoperata – esiste. Qualunque progetto strategico verrà attuato, l’elemento interessan­te della traiettori­a di questa impresa – da Alba a Montecarlo, dal Lussemburg­o all’Inghilterr­a, dalla Turchia al Midwest – è rappresent­ato prima di tutto dalla identità dei Ferrero imprendito­ri. Colpiti dai lutti che recidono i legami familiari. Uniti alla comunità e alla fabbrica. Ossessiona­ti dal prodotto. Felici di bere il barolo chinato in Piazza del Duomo ad Alba e tranquilli – senza ostentazio­ni – sugli elicotteri. Con uno sguardo interessat­o, ma furbo e distaccato, per i soloni delle banche d’affari e delle società di consulenza che farebbero carte false per essere ingaggiati da loro e dalla loro azienda.

È qualcosa di molto novecentes­co, che mostra in filigrana il profilo del vecchio Michele, uno degli imprendito­ri geniali e perseveran­ti che hanno scritto il romanzo della nostra industria, un uomo allo stesso tempo delle Langhe e dei mercati internazio­nali. In fondo, qualcosa di molto italiano.

IL CAPITALE Adesso il gruppo è chiamato ad affrontare i nodi della leva e dell’eventuale cambio di governance

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