Aspettando Parigi
Le affinità elettive tra olandesi e francesi non sono affatto scontate. Anzi. Tra loro la logica degli interessi economici spesso confligge. Ma se si toccano le corde dell’identità nazionale o i problemi della convivenza con il diverso, che sia il famoso idraulico polacco o l’immigrato islamico della porta accanto, l’inconscio collettivo di entrambi tende a scattare all’unisono.
Insieme nel giro di tre giorni, era la primavera del 2005, bocciarono per via referendaria la Costituzione europea, il grande Moloch che alla lunga li avrebbe derubati, ripetevano, della rispettiva sovranità e libertà d’azione. Per difenderle, non esitarono a mandare in crisi l’Unione.
Sono passati 12 anni dal clamoroso strappo. Nel frattempo in Olanda e Francia quelle pulsioni si sono accentuate trovando attenti interpreti nei partiti populisti, nazionalisti, no-global e xenofobi. Con un’aggravante rispetto ad allora: ormai, con più o meno forza, quel ribellismo dilaga in tutta l’Unione. Per questo il mancato sorpasso del partito della Libertà di Geert Wilders e la conferma dei liberali del premier Mark Rutte come primo gruppo parlamentare, insieme all’avanzata degli altri partiti filo-europei, ha fatto tirare un sospiro di sollievo in tutta Europa: scongiurato il temuto effetto domino in Francia, che in aprile-maggio voterà per le presidenziali, e nel resto dell’Unione. Evitata un’iniezione di instabilità politica collettiva tra spallate all’euro e all’Unione.
Marine Le Pen sperava nell’effetto Wilders per gonfiare le bandiere del Front National e sfondare al secondo turno per costruire la sua anti-Europa, quella delle patrie. Il vento dell’Aja invece le ha soffiato contro. Lanciando un segnale incoraggiante agli europeisti e al vertice Ue che si riunirà a Roma il 25 marzo per il 60° del- l’Unione, con la dichiarata ambizione di celebrarne anche l’atto di rinascita secondo il modello delle diverse velocità integrative.
Sbaglierebbe però chi si illudesse che per la sfida nazionalpopulista in Europa è l’inizio della fine. Rutte ha vinto (33 seggi su 150) perdendone ben 9 per strada. Wilders ha perso guadagnandone 5 per arrivare a 20. Uno in più sia dei democristiani che dei liberali di D66. Se la scelta europeista della maggioranza degli olandesi è inequivocabile, la spinta propulsiva dei populisti non sembra affatto esaurita. Tanto più che il loro messaggio di intolleranza verso gli immigrati si è transustanziato in quello di Rutte: «Comportatevi normalmente o andatevene», lo slogan che rimbalzava dai muri tappezzati dei suoi manifesti elettorali. Le intemperanze della Turchia di Erdogan hanno fatto il resto.
Che vincano o no, ormai il veleno nazionalista e protezionista contagia l’Europa anche indossando la maschera dei partiti tradizionali, che troppo spesso vanno a rimorchio invece che all’avanguardia della società, dei suoi disagi e malumori, però senza poi affrontarne seriamente i problemi. Alimentando quindi sfiducia nell’establishment e nelle sue ricette. Per questo l’insidia populista è difficile da battere in democrazia e alla lunga appare un tarlo mortale per la costruzione europea.
Dopo Brexit il futuro a 27 prevede integrazioni differenziate per affrancare l’Unione dalla palude dell’indecisionismo struttu- rale e ridarle efficienza e capacità di azione in casa e sulla scena globale. Dall’euro a crescita e occupazione, dalla difesa alla politica estera e migratoria. Come? Anche tralasciando lo scontro EstOvest su una tabella di marcia che il blocco orientale vive come un ulteriore esproprio di sovranità o una condanna all’emarginazione dal club dei soci che contano, i nodi più grossi da sciogliere restano dentro la vecchia Europa. Tanto più che ora le irrisolte divergenze ideologiche sul modello di integrazione economica e politica da perseguire si incrociano con la crisi del sistema democratico snaturato dall’impatto con twitter, social media e verità post-fattuali da un lato e dall’altro con rigurgiti nazional-protezionisti alimentati dai crescenti squilibri social-economici interni e da persistenti divergenze di fatto e di interessi tra i partner europei.
Il recupero della fiducia reciproca è la condicio sine qua non per ripartire. Anche ai tempi di Jacques Delors si parlava di geometrie variabili per accelerare il passo, anche allora l’Europa era divisa ma non diffidava di sè stessa e tanto meno dei propri Stati membri. Si voleva invece grande, aperta al mondo, liberale e global. Oggi sembra un’altra, una perfetta sconosciuta. Per questo il voto olandese è un buon segno perché in timida controtendenza ma non basta a riconquistare il futuro europeo. Per farlo dovrebbe replicarsi in Francia, ripetere il binomio del 2005 questa volta in chiave virtuosa.