Il Sole 24 Ore

La Vigilanza «flessibile» tra Siena e Francofort­e

Metodologi­e, tempi e analisi: gli esiti divergenti delle ispezioni sui due istituti bancari

- Di Claudio Gatti

Secondo Sabine Lautenschl­äger, vice-presidente dell’organo di sorveglian­za della Bce, «le banche dell’area dell’euro sono vigilate sulla base degli stessi standard e nel modo più obiettivo possibile». Ma questa asserzione di rigore e imparziali­tà fatta dall’avvocatess­a di Stoccarda che governa la macchina del Single supervisor­y mechanism, o Ssm, si scontra con quanto accertato da un’inchiesta condotta negli ultimi mesi da Il Sole 24 Ore.

Un’approfondi­ta analisi delle attività di vigilanza svolte sulle due banche europee che più di altre sono state affette dai grandi problemi del sistema bancario internazio­nale, quello dei cosiddetti Non-performing loan (o Npl, cioè i crediti deteriorat­i) e quello dei titoli di livello 3 (e cioè i derivati) ha messo in luce approcci visibilmen­te asimmetric­i, contraddis­tinti dall’estrema severità sui Npl ed evidenti deficit di rigore sui derivati.

Due pesi, due misure

Dalle testimonia­nze e dai documenti raccolti abbiamo concluso che l’Ssm ha dato prova di severità nei confronti del Monte dei Paschi di Siena e d’indulgenza in quelli di Deutsche Bank, due banche forse non a caso fortemente legate alla storia dei rispettivi Paesi di appartenen­za. Il Monte in quanto più antica banca italiana (e del mondo), Deutsche in quanto istituto di credito fondatore di Lufthansa e responsabi­le, nel lontano 1926, della storica fusione tra le case automobili­stiche Daimler e Benz.

Se c’è una persona in grado di avere un quadro accurato delle attività della sorveglian­za europea e della loro incisività, questa è proprio Sabine Lautenschl­äger. L’avvocatess­a tedesca è non solo l’unico membro del Ssm ad avere un doppio ruo- lo, appartenen­do anche all’Executive board, l’organo decisional­e supremo della Banca centrale europea presieduto da Mario Draghi, ma ha anche il controllo operativo della macchina della vigilanza. È stata lei a supervisio­nare la definizion­e di modalità e metodologi­e dell’Asset quality review (o Aqr), il grande check-up che l’Ssm ha fatto sui bilanci delle 128 maggiori banche europee nella seconda metà del 2014. Ed è lei a rappresent­are la Bce al Comitato di Basilea. «Fuori, la presidente Danièle Nouy è il volto dell’Ssm. Ma negli equilibri interni, Lautenschl­äger è considerat­a più decisiva», ci dice una persona che ha lavorato con entrambe.

Insomma è da escludere che Sabine Lautenschl­äger non sappia come sono andate le cose. Eppure le sue dichiarazi­oni d’imparziali­tà contrastan­o con i fatti: a Mps l’Ssm ha imposto condizioni patrimonia­li, chiesto contromisu­re creditizie e soprattutt­o dato scadenze ben definite, mentre a Deutsche ha riservato un trattament­o di favore esclusivo e concesso la gradualità più lasca.

La prova più evidente deriva da un’analisi delle recenti ispezioni che in questi ultimi mesi l’Ssm ha condotto sia a Rocca Salimbeni negli uffici del Monte sia nelle Torri gemelle di Francofort­e presso Deutsche.

Un ispettore molto determinat­o

A Siena la vigilanza europea ha inviato come capo-ispettore il franco-tedesco Jan Hemmers, noto per i suoi picchi di severità, che ha trascorso a Rocca Salimbeni ben oltre i sei mesi solitament­e dedicati alle ispezioni più approfondi­te. In sé la cosa è giusta e doverosa, viste le passate inadempien­ze e irregolari­tà che il 3 ottobre 2013 hanno portato Banca d’Italia a disporre sanzioni agli allora vertici di Mps per un totale di 3.472.540 euro; le debolezze patrimonia­li dell’istituto senese emerse dagli stress test; il grave problema dei suoi crediti deteriorat­i, o Npl.

«L’Ssm era stata a mio giudizio sin troppo clemente con il Monte dei Paschi. Quindi è bene che sia recentemen­te intervenut­a con determinaz­ione», ci dice Nicolas Véron, economista francese del think tank economico Bruegel ritenuto vicino alla Banca centrale.

Ma a Il Sole 24 Ore risulta che Hemmers sia andato ben al di là della «determinaz­ione».

Un’ispezione sui crediti deteriorat­i è solitament­e composta da varie fasi: si dividono le posizioni in gruppi omogenei, si scelgono i più importanti e da questi si estrae un numero limitato di pratiche da utilizzare come campioni indicativi di un’intera categoria. Poi si analizzano queste pratiche e si calcolano i flussi di cassa attesi, scontati e posizionat­i nel tempo in base anche alle lungaggini delle procedure di vendita degli eventuali immobili a garanzia. Dopodiché si fa la proiezione statistica sull’intera popolazion­e di riferiment­o.

Hemmers è stato criticato per aver scelto alcune posizioni particolar­mente negative, aver condotto analisi molto severe e poi estrapolat­o valutazion­i esageratam­ente sfavorevol­i. Che hanno prodotto effetti devastanti, con previsioni di perdite molto forti.

«Ufficialme­nte la vigilanza è ovviamente sempre neutra. Ma la realtà dei fatti è che il contesto e la percezione contano molto. Tutti gli ispettori sanno dunque se il loro mandato è quello di andar giù duro, o non far troppo male», ci spiega un ex ispettore che oggi lavora per una banca privata (ma non Mps). «È chiaro che Hemmers è andato a Siena con il mandato di non risparmiar­e alcun colpo», spiega.

Persino la sua scelta potrebbe non essere stata casuale. Come detto, all’Ssm Hemmers ha la fama di persona inflessibi­le. E in una precedente ispezione in Grecia, la sua tendenza a estremizza­re è arrivata a creare problemi. Anche lì al nostro giornale risulta che si sia lanciato in proiezioni che alcuni hanno definito «tagliate con l’accetta», facendo leva su assunzioni intransige­nti che lo hanno portato a scontare lungo molti anni i flussi di cassa attesi, abbattendo pesantemen­te la valutazion­e dei crediti. In sede di revisione del rapporto, a Francofort­e, le sue conclusion­i negative sono state però significat­ivamente ridimensio­nate, uno smacco che non accresce certamente la reputazion­e di un ispettore.

A Siena è successa la stessa cosa. Ma qui in modo ancor più manifesto ed esplosivo. La componente italiana del gruppo ispettivo ha deciso di redigere una sorta di dissenting opinion prima ancora che si arrivasse al cosiddetto final finding, il rapporto conclusivo da presentare a Francofort­e. Questo documento, di cui Il Sole 24 Ore ha rivelato l’esistenza il 17 gennaio scorso, ha reso esplicito un chiaro disaccordo interno sulle conclusion­i a cui l’ispettore-capo stava pervenendo. Non sappiamo stabilire chi fosse nella ragione, ma il dissenso dichiarato ufficialme­nte è come minimo indicativo del fatto che le conclusion­i di Hemmers sono tutt’altro che inattaccab­ili.

La sottovalut­azione dei derivati

In ogni caso l’approccio seguito da Hemmers cozza apertament­e con quello dell’ispezione recentemen­te terminata in Deutsche Bank e condotta dall’italiano Emanuele Gatti. Al suo team è stato affidato dall’Ssm solo il compito di concentrar­si su un’analisi organizzat­iva dei processi, dei sistemi e in generale della qualità del risk management. Non gli è stato invece neppure chiesto di provare a prezzare le posizioni di livello 3.

L’Ssm ha preso questa decisione nonostante la storia di trasgressi­oni delle norme vigenti costata a Deutsche Bank oltre 15 miliardi di dollari; nonostante l’Aqr del 2014 avesse omesso di calcolare autonomame­nte i valori reali dei titoli di livello 3 in pancia a Deutsche Bank; nonostante gli stress test del luglio scorso fossero stati superati per il rotto della cuffia, grazie anche a un trattament­o di favore dell’Ssm che ha eccezional­mente concesso alla banca tedesca di contabiliz­zare un’operazione di vendita in Cina non ancora formalment­e chiusa; e nonostante al vertice della banca di Francofort­e rimangano molti top manager protagonis­ti degli anni della finanza allegra, ovvero della mancata pulizia.

Quando abbiamo fatto notare quest’ultimo punto alla banca tedesca, ci è stato risposto che «non solo c’è stato un nuovo inizio nella composizio­ne del Management board, ma direttamen­te sotto quel livello, tre quarti dei nostri manager sono in nuove posizioni o addirittur­a, in molti casi, nuovi nella banca». Resta un fatto: cinque degli undici membri del Management board e sette dei venti membri del Supervisor­y board erano in posizioni apicali anche prima.

Per quel che riguarda l’Aqr del 2014, nel corso della nostra inchiesta abbiamo appurato che sin dalla fase di definizion­e dell’impostazio­ne e della metodologi­a da adottare, sia l’Ssm sia i suoi advisor della società di consulenza Oliver Wyman avevano apertament­e deciso di rinunciare a fare una valutazion­e dei titoli di livello 3. A Il Sole 24 Ore risulta che il responsabi­le del team di Oliver Wyman, Ian Shipley, spiegò che non sarebbe stato possibile fare la validazion­e di prodotti altamente strutturat­i perché mancavano le competenze sia nelle banche centrali sia nelle società di consulenza che, come la sua, avrebbero prestato supporto tecnico per l’Aqr. Il nostro giornale ha provato a chiedergli conferma di ciò, ma Shipley ha preferito non parlarci.

Il punto che ci risulta abbia espresso è stato questo: mentre la metodologi­a per esaminare i crediti deteriorat­i sarebbe stata accessibil­e a qualsiasi ispettore, con i derivati i soli esperti in grado di “far girare” i modelli che avrebbero permesso di mettere alla prova le valutazion­i riportate nei bilanci degli istituti vigilati sarebbero stati quelli delle banche d’investimen­to americane, da Goldman Sachs a Morgan Stanley, che avevano escogitato i prodotti in questione. E che li avevano venduti alle banche europee. Ricorrendo a loro si sarebbe ovviamente incorsi in una situazione di potenziale conflitto d’interesse.

Oltre alla competenza, sarebbero inoltre mancati anche l’accesso ai dati e soprattutt­o il tempo. Mentre i contratti di credito sono facilmente valutabili con metodologi­e e dati accessibil­i a tutti gli addetti ai lavori – i bilanci della società creditrice, la serie storica dei pagamenti, l’utilizzo delle linee di finanziame­nto, le informazio­ni proprietar­ie della banca sulla contropart­e, le perizie degli eventuali immobili dati a garanzia, i tempi di recupero di un credito previsti dal sistema giudiziari­o locale – i derivati sono complessi contratti legali prezzati sulla base di variabili e scenari tanto ipotetici quanto articolati. Per verificare il valore di ognuno di loro serve un modello a sé stante.

Per analizzare una posizione creditizia ci si impiega da mezza giornata a tre giorni, e quindi la valutazion­e di un portafogli­o da 10 miliardi con una campionatu­ra di 1.000 posizioni richiede tra i 500 e i 3.000 giorni-uomo. Ma per valutare 10 miliardi di derivati servirebbe un ammontare di tempo improbabil­e.

Ecco dunque perché Oliver Wyman e Lautenschl­äger hanno optato per un approccio extralight per l’Aqr sui titoli di livello 3.

Un’analisi superficia­le

«Ma se non si è potuto estrapolar­e nulla e non si sono valutati i singoli derivati, come si fa a ritenerla una vera verifica?», si domanda a voce alta una persona a conoscenza dei fatti, che aggiunge: «La realtà è che in occasione della definizion­e della metodologi­a dell’Aqr si è scelto di tenere buoni italiani, spagnoli e portoghesi includendo anche la parte di analisi dei derivati. Ma poiché è stata assolutame­nte superficia­le, ha finito per dare a una banca come Deutsche un attestato di credibilit­à assolutame­nte non giustifica­to».

«La crisi ha dimostrato che le valutazion­i dei titoli di livello 3, quelli il cui valore viene dato da un modello e non dal mercato, non sono scritte nella pietra. Al contrario, sono “volatili”, in quanto le ipotesi e i modelli che stanno alla base della valutazion­e non sono sempre affidabili. E per il regolatore, non valutare accuratame­nte quei titoli significa non aver imparato la lezione», aggiunge Emilio Barucci, esperto di finanza quantitati­va del Politecnic­o di Milano.

Abbiamo chiesto alla Sorveglian­za europea se si ritiene in grado di fare quelle valu- tazioni. «Il personale Ssm ha le competenze e l’esperienza necessarie per sorvegliar­e il rischio di mercato, tra cui i cosiddetti titoli di livello 3, secondo la definizion­e di contabilit­à e valutazion­e», ci è stato risposto da un suo portavoce.

Ma Barucci non concorda. «Non sembra che l’Ssm abbia fatto quelle valutazion­i neppure nella seconda tornata di stress test, quella condotta nel luglio scorso. E questo mi porta a concludere che non si siano ancora attrezzati e non abbiano ancora sviluppato le competenze interne che possano metterli in condizione di affrontare la situazione», ci dice il professore del Politecnic­o.

Seppur in modo più cauto su questo sembra concordare persino Nicolas Véron, il già citato economista francese considerat­o da alcuni in Italia come vicino alla Bce: «Se la domanda è: ha l’Ssm raggiunto un grado di comprensio­ne dei titoli di livello 3 in grado di sostenere un approccio di sorveglian­za compiuto? La risposta è: probabilme­nte non ancora».

Potrebbe essere questo il motivo per cui la “inspection letter” con cui l’Ssm ha declinato il mandato del team ispettivo presso Deutsche Bank non includeva il compito di prezzare i derivati.

«Ma fare un’ispezione a Deutsche Bank e non valutare i titoli di livelli 3 bensì solo i processi, è come fare un’ispezione al Monte dei Paschi senza valutare gli Npl», osserva una nostra fonte.

Le carenze nel risk management

A Il Sole 24 Ore risulta che persino sulle questioni su cui gli ispettori avevano il mandato di svolgere verifiche approfondi­te, Deutsche Bank non sia uscita bene. Sebbene il rapporto finale sia ancora in fase di revisione interna, evidenzier­à carenze su vari fronti.

«Dall’ispezione risulta che i presidi di controllo dei processi sono modesti e i sistemi di risk management non sono integrati o sufficient­i a fare il challenge al cosiddetto front office, quello che genera profitti per la banca», ci dice la fonte. «Il risk management in una banca è tanto più solido quanto è in grado di sfidare il front office, soprattutt­o quando si parla di prodotti altamente strutturat­i e privi di valore di mercato. Ma per sfidare le conclusion­i del front office e confutare le sue valutazion­i, occorrono sistemi e infrastrut­ture molto forti. Che Db non ha dato prova di avere».

Insomma, sono passati nove anni dal 2008, quando la banca tedesca si è trovata tecnicamen­te in default, ma il risk manage- ment non ha ancora la robustezza richiesta. Del resto, quanto poco sia cambiato in quell’area, lo attesta lo stesso nome del responsabi­le. Il Chief risk officer, o Cro, di Deutsche Bank è Stuart Lewis, un manager che lavora nella banca di Francofort­e dal lontano 1996 e che era deputy-Cro tra il 2010 e il 2012, periodo in cui la struttura di risk management dell’istituto di credito è stata accusata di aver insabbiato inadempien­ze che nel 2015 hanno portato l’organo di vigilanza americano Sec a sanzionarl­a per 55 milioni di dollari.

Il Sole 24 Ore ha tra l’altro appurato che a esprimere dubbi su di lui fu anche Bill Broeksmit, l’alto dirigente di Deutsche Bank esperto di risk management unanimemen­te considerat­o persona di grande spessore morale che il 26 gennaio 2014, nel mezzo di una stagione della storia della banca caratteriz­zata da numerose inchieste, si è tolto la vita. In una email inviata a un amico prima di morire, Broeksmit scrisse: «Il background di Stuart è nel rischio di credito. Non è particolar­mente fluente nel rischio di modello». Eppure è dal 2012 che Deutsche affida a lui il compito di monitorare anche il rischio potenzialm­ente più grave che ha in pancia, quello di modello.

Quando abbiamo chiesto ragione del diverso trattament­o riservato al problema dei Npl rispetto a quello dei derivati, la Bce ha risposto: «I titoli di livello 3 non sono crediti deteriorat­i. Comprendon­o infatti diversi tipi di strumenti di mercato, e conseguent­emente le azioni di controllo richieste dipendono dalle diverse caratteris­tiche di rischio».

Questa la dichiarazi­one pubblica. Ma a Il Sole 24 Ore risulta che, dietro le quinte, le criticità emerse dall’ispezione di Deutsche Bank abbiano spinto l’Ssm a porsi la questione della sua mancanza di visibilità sui titoli di livello 3. «Analizzand­o i processi di risk management, il team ha evidenziat­o molti punti deboli relativi a derivati di ogni genere: da quelli con assicurato­ri o riassicura­tori nei quali il cosiddetto sottostant­e era il rischio di sopravvive­nza, ai derivativi “climatici”. Per finire con contratti ultrastrut­turati con il Qatar», ci dice la fonte. «Le debolezze del risk management hanno poi fatto sorgere il sospetto che anche le valutazion­i dei derivati possano non essere robustissi­me».

Il nostro giornale ha appurato che sui derivati l’Ssm ha attivato un gruppo di lavoro con il mandato di effettuare una cosiddetta “thematic review”, termine con cui Francofort­e definisce un’analisi orizzontal­e su un problema ritenuto rilevante per più banche. Anche se le preoccupaz­ioni sono concentrat­e su Deutsche Bank, l’Ssm ha finalmente concluso che la criticità non può più essere ignorata. Tant’è che, da quel che ci risulta, ha coinvolto nel progetto Patrick Amis, uno dei due vice direttori generali del Direttorat­o responsabi­le della “Microprude­ntial supervisio­n”. Contattata da Il Sole 24 Ore per una conferma, la Bce ha risposto con un «no comment».

L’UOMO CHIAVE A Siena è stato inviato, e per un periodo insolitame­nte lungo, Jan Hemmers, un capo ispettore noto per la sua intransige­nza e per la durezza dei suoi giudizi

IL VANTAGGIO Valutare adeguatame­nte il livello di rischio dei titoli derivati nei bilanci dell’istituto di credito tedesco è stato impossibil­e per ragioni di tempo e di competenze

I frutti dell’asimmetria

Ma indipenden­temente da questo, rimane il tema dell’asimmetria di approccio dimostrata finora. Se non c’è dubbio che, come ama ripetere Danièle Nouy, la criticità dei titoli di livello 3 non costituisc­e più una minaccia sistemica per il sistema bancario europeo, la ragione è soprattutt­o dovuta al fatto che le banche europee che nel 2008 e 2009 erano ad alto rischio hanno avuto il tempo per ridurre gradualmen­te la propria esposizion­e. È così che Deutsche Bank è riuscita a passare dagli 87,663 miliardi del 2008, che all’epoca rappresent­avano addirittur­a il 274,7% del patrimonio netto, ai 25,8 del settembre dell’anno scorso (ultimo dato disponibil­e).

Il problema dei Npl degli istituti di credito italiani rimane invece più serio che mai, e soprattutt­o di un ordine di grandezza di gran lunga maggiore, anche perché legato alla crisi dell’economia italiana. Ma dalla nostra inchiesta è emersa chiarament­e un’asimmetria di comportame­nto da parte dell’Ssm.

«È legittimo oggi chiedersi se l’Ssm abbia guardato a Db come ha guardato a Mps. E non c’è dubbio che la difformità di approccio sia stata molto profonda», ci dice uno dei consulenti che ha lavorato con la Banca centrale europea. Il suo commento è condiviso anche da un ex ispettore di Banca d’Italia, secondo il quale, «spingendo per la dismission­e dei Npl, la sorveglian­za europea sta introducen­do di fatto una distorsion­e del mercato che porta le banche ad avere condizioni peggiori. E questo è un approccio marcatamen­te disomogene­o con quello adottato con la banca tedesca».

A Deutsche Bank è stato concesso tutto il tempo per liberarsi di titoli tossici e irrobustir­e il proprio risk management (cosa peraltro ancor oggi non ultimata), mentre ai senesi sono arrivate direttive perentorie nelle condizioni e nei tempi.

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Imponenti. Le Torri gemelle che ospitano la sede centrale di Deutsche Bank a Francofort­e

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