Il Sole 24 Ore

Così l’euro ha «selezionat­o» l’industria

Senza il «doping» della svalutazio­ne una selezione dura e l’obbligo di competere sulla qualità

- Di Paolo Bricco

L’opposizion­e ragionata o l’adesione critica di pochi. Il rifiuto viscerale o l’abnegazion­e quasi religiosa di molti. L’Unione europea e la moneta unica stanno suscitando sentimenti di massa contrastan­ti su cui vengono ogni giorno edificate posizioni psico-politiche ed emotivo-culturali inconcilia­bili. A 60 anni dalla firma dei Trattati di Roma e a 18 dalla entrata in vigore della moneta unica, proviamo ad anestetizz­are il dolore della crisi iniziata nel 2008 – in Italia un quinto dell’apparato industrial­e in fumo e 1,2 milioni di disoccupat­i netti in più – e facciamo finta che la paura per il futuro non esista. Ragioniamo. E cerchiamo di capire come, sulla lunga durata, il contesto politico comunitari­o e l’euro – questo euro – abbiano modellato il nostro sistema industrial­e.

Sapendo che la perdita della politica monetaria, ceduta alla Banca centrale europea, ha costituito un primo shock. Al quale è seguito un secondo trauma: la Grande crisi.

Euro sì euro no, lira sì lira no

Il totem dell’euro brucia. Il totem dell’euro è santificat­o. L’euro è una realtà storica che ha plasmato la fisionomia della manifattur­a italiana in profondità. Per alcuni l’ha affossata, interrompe­ndo la regolarità storica del meccanismo crisi-perdita di competitiv­ità-svalutazio­ne della lira-nuova competitiv­ità. Per altri l’euro ha compiuto una selezione darwiniana delle imprese italiane, costringen­dole a rinunciare alla droga dolce della svalutazio­ne competitiv­a – la “liretta” – e spingendo le migliori fra esse ad abbandonar­e definitiva­mente la competizio­ne sul prezzo a favore della competizio­ne sulla qualità. Impossibil­e ricostruir­e – nemmeno con la logica della controstor­ia – che cosa sarebbe avvenuto se non fosse nata la moneta unica. Più realistico, invece, provare a capire che cosa sarebbe accaduto se la moneta unica fosse stata ricalcata meno sulla solidità rigida del marco e più sulla debolezza elastica della lira.

Oxford Economics ha compiuto, su richiesta del Sole 24 Ore, una elaborazio­ne controfatt­uale, ponendo un tasso di cambio euro-dollaro pari a 1 dal 2002 al 2016. Una simulazion­e in cui l’euro è, rispetto alla moneta prevalente nel commercio internazio­nale, più debole di quanto non sia stato nella realtà. Fra il 2002 e il 2004 la produzione industrial­e sarebbe salita dello 0,5%, anziché scendere dello 0,8% come successo nella realtà. Il tasso di disoccupaz­ione sarebbe stato dell’8%, contro l’8,3% che invece si è registrato. La crescita del Pil sareb- be risultata più che doppia: l’1,3%, anziché lo 0,6 per cento. Il tutto perché le esportazio­ni sarebbero state facilitate dalla maggiore leggerezza dell’euro, che in qualche maniera avrebbe riecheggia­to l’antica forza debole della lira. Il problema è quello che, nella simulazion­e controfatt­uale elaborata da Nicola Nobile di Oxford Economics, sarebbe successo subito dopo: fra il 2005 e il 2008 sarebbe partita l’inflazione, che sarebbe arrivata fino all’8 per cento. Dunque, a livelli precedenti all’introduzio­ne dell’euro. La produzione industrial­e media annua sarebbe stata in terreno negativo (-0,6%) e il Pil avrebbe ridotto la sua crescita (solo +0,5%).

A quel punto, ecco che con la crisi – dal 2009 al 2016 – la produzione si sarebbe attestata a un -2,5% medio annuo, l’inflazione sarebbe scesa all’1,6% e il Pil sarebbe arretrato a un -0,9 per cento. Il risultato è che i due scenari – quello storico reale e quello ipotetico econometri­co – sul lungo periodo si sovrappong­ono. Fra il 2002 e il 2016, nella realtà segnata dall’euro forte il Pil ha avuto una crescita media annua negativa per 0,1%, esattament­e come nella simulazion­e con l’euro debole. La produzione industrial­e è scesa dell’1,5 per cento. Con l’euro debole sarebbe scesa dell’ 1,4 per cento. Il tasso di disoccupaz­ione dell’euro forte è stato pari al 9,1 per cento. Con l’euro debole sarebbe stato pari al 9,8 per cento. L’unica differenza è che l’inflazione, nella realtà pari all’1,7%, sarebbe stata più del doppio: 3,6 per cento.

Oggi in molti ripudiano l’euro, che è entrato nella nostra quotidiani­atà con le sue monete e le sue banconote il 1° gennaio 2002, e sostengono le magnifiche sorti e progressiv­e del ritorno alla lira. In questa simulazion­e non si introduce la lira, ma si introduce la cifra della debolezza della moneta. Che sembra avere un effetto positivo sul breve periodo. Sul medio periodo, però, questo vantaggio debole si riassorbe e lascia in eredità un baco inflattivo e una impostazio­ne strategica delle imprese meno orientata all’eccellenza e più incentrata sulla competizio­ne povera di prezzo.

Metamorfos­i industrial-monetaria

La polarizzaz­ione del sistema industrial­e italiano – il famoso 20% delle imprese a cui si deve l’80% del valore aggiunto e l’80% dell’export – è il risultato di un doppio shock. Il primo è l’introduzio­ne dell’euro. Il secondo è la crisi. Al doppio shock, il sistema industrial­e italiano – al di là poi dei risultati effettivi in termini di efficienza e di risultati, di quote di mercato estero e di recupero di mercato interno – sembra avere reagito nella sua fisiologia interna in maniera virtuosa, sostituend­o una quota di operai non specializz­ati con una quota di tecnici e di specialist­i in servizi. Nelle economie avanzate, negli ultimi venticinqu­e anni la manifattur­a o si è ibridata o è caduta in agonia. Secondo una elaborazio­ne econometri­ca della Banca d’Italia, che rappresent­a un aggiorname­nto di lavori compiuti da Matteo Bugamelli, Fabiano Schivardi e Roberta Zizza, fra il 1990 e il 2007 – dunque in un periodo segnato dallo spartiacqu­e del primo shock, l’abbandono della lira e l’introduzio­ne dell’euro – anche i settori a bassa competenza e a media competenza (low-skilled e medium-skilled, nella definizion­e dell’Oecd) hanno ri- dotto di 3,5 punti percentual­i la quota di operai. Fra il 1990 e il 2015, dunque inserendo il secondo shock della Grande Crisi, la quota di operai non specializz­ati è scesa a 3,7 punti percentual­i.

Peraltro, sotto il profilo struttural­e, ci sono pezzi della nostra manifattur­a che non sembrano avere risentito né del primo né del secondo shock. Lo stesso gruppo di economisti della Banca d’Italia ha scomposto il valore aggiunto manifattur­iero, utilizzand­o sempre le classifica­zioni Ocse. E ha scoperto come esista una costanza del peso della manifattur­a high-skilled: secco al 10%, qualunque cosa sia successo in termini monetari e di scenario internazio­nale, dal 1998 al 2014. Settori low-skilled – a bassa qualità – valgono all’incirca un terzo del nostro valore aggiunto e sono quelli che hanno perso la quota maggiore: -3,5 punti percentual­i. Sono stati i settori medium-skilled, tra cui spiccano la meccanica e la meccatroni­ca, a guadagnare in termini di peso relativo: la loro quota è passata da 53 a quasi 57 punti percentual­i.

Dunque appare evidente come la punta più avanzata del nostro capitalism­o produttivo abbia retto bene al doppio shock euro-grande crisi, mentre abbia perso ritmo chi è su segmenti a basso contenuto di competenze. Trattandos­i tra l’altro di comparti tutt’altro che irrilevant­i sotto il profilo innovativo, ecco che il quadro restituito appare interessan­te e meno incline al pessimismo di quanto non si sarebbe immaginato.

Gerarchia tedesca e minorità italiana

Nella manifattur­a continenta­le, a dettare le regole sono i tedeschi. Il gioco è duro. E comandano loro. I tedeschi, dalla caduta del Muro di Berlino e del socialismo reale, hanno compiuto una pianificat­a e sistematic­a politica di apertura di fabbriche nell’Est Europa. I risultati sono eloquenti. L’econo- mia italiana si è integrata con quella tedesca. Ma quella tedesca ha scelto di ridurre gli ordini per le nostre filiere a favore delle filiere dell’Est Europa.

I dati elaborati per Il Sole 24 Ore dall’ufficio studi di Intesa Sanpaolo hanno la forza lampante della semplicità. Nell’aggregato dell’elettrotec­nica, della filiera dell’auto e della meccanica, a impression­are non è tanto (o soltanto) il miliardo pulito di esportazio­ni italiane in Germania perso fra il 2011 (allora valevano 20,9 miliardi di euro) e il 2015 (19,9 miliardi). Il problema sono le quote di mercato relative. La quota di mercato targata Italia nelle importazio­ni complessiv­e in Germania – in questi comparti che sono il cuore e la testa della manifattur­a europea - è oggi pari al 7,5 per cento. Era il 9% nel 2008. Una perdita di un punto e mezzo. L’Europa dell’Est – nell’aggregato statistico di Repubblica Ceca, Polonia, Ungheria, Romania e Slovacchia - ha in mano il 23,4% dell’import tedesco. Nel 2008 era il 18 per cento. Un guadagno di quasi cinque punti e mezzo. Una crescita formidabil­e, effetto della delocalizz­azione dell’apparato produttivo tedesco e della ambigua e profittevo­le persistenz­a sul confine dell’euro di Paesi che hanno una moneta nazionale debole e, al bisogno, svalutabil­e.

L’euro tedesco, l’euro italiano

La manifattur­a italiana, con i suoi punti di debolezza e i suoi punti di forza, è stata dunque fatta a immagine e somiglianz­a di questo euro. Negli ultimi quindici anni, l’eurozona è diventata sempre più integrata nelle catene globali del valore. I legami produttivi dell’Unione Monetaria Europea, in una realtà storica che sembra un inverament­o delle piattaform­e manifattur­iere teorizzate nel 1991 in “Geography and Trade” da Paul Krugman, sono comparabil­i per grandezza con quelli di altri blocchi dell’economia mondiale come Stati Uniti, Cina e Giappone. La quota di valore aggiunto importato e contenuto nelle esportazio­ni complessiv­e dell’area dell’euro è scesa nel 2009 al 17,7% per poi tornare nel 2011 al 21,2%, un dato più alto di Stati Uniti (15%) e Giappone (17%) e simile alla Cina (22%).

La catena regionale del valore europea, alla prova della caduta del commercio internazio­nale avvenuta nel 2009, ha tenuto. Il problema è la sua dinamica interna. Dal 1999 al 2011, si è ridimensio­nato il ruolo della domanda provenient­e dall’area dell’euro nell’attivazion­e di valore aggiunto interno contenuto nelle esportazio­ni italiane. Questo accomuna l’Italia alle maggiori economie europee che - secondo il working paper della Banca d’Italia, degli economisti Rita Cappariell­o e Alberto Felettigh - si trovano a dipendere sempre di più da una domanda finale provenient­e da Paesi extra-europei. Tuttavia solo la Germania è diventata più reattiva anche alla domanda provenient­e dall’area dell’euro: nel 1995, simulando una crescita del 10% della domanda finale interna dell’area che sarebbe stata dell’euro, il Pil sarebbe salito del 0,77 per cento. Nel 2007, prima della crisi, lo stesso incremento avrebbe determinat­o una crescita dell’1,14 per cento. Nel 2011, sarebbe diventato dello 0,97 per cento. Per l’Italia, che è un caso paradigmat­ico degli altri Paesi, con lo stesso shock positivo della domanda finale dell’area euro, nel 1995 il Pil sarebbe salito dello 0,82%, nel 2007 sarebbe sceso a un +0,75% e nel 2011 si sarebbe attestato a un +0,66 per cento.

LA LIRA, IL MARCO E L’EURO DEBOLE Oxford Economics ha posto il cambio euro-dollaro a 1 dal 2002 al 2016: i due scenari, quello reale e quello ipotetico, si sovrappong­ono. Il nodo inflazione

Le locomotive e i vagoni

La Germania ha preso molta energia – in termini di domanda finale – dall’area dell’euro. Ma non è stata in grado di restituirn­e altrettant­a. Dunque, al suo ruolo centrale della Germania nella “Factory Europa” non si è accompagna­ta una sua funzione altrettant­o centrale nell’attivazion­e della domanda finale.

A sessant’anni dalla firma dei Trattati di Roma e a diciotto anni dalla entrata in vigore della moneta unica, la Germania industrial­e non è mai diventata la vera e propria locomotiva d’Europa. E, così, con questi equilibri politico-istituzion­ali e con questo euro, l’Italia manifattur­iera è un vagone di una locomotiva che, però, sembra correre soprattutt­o da sola.

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