Il Sole 24 Ore

Effetto Nimby: meno opere bloccate ma solo perché vengono cancellate

- Carlo Andrea Finotto

L’ultimo caso è freschissi­mo. Risale a ieri. La mutlinazio­nale britannica Rockhopper, ha avviato le procedure per rivalersi economicam­ente nei confronti dell’Italia. Motivo: l’impossibil­ità di sfruttare il giacimento di Ombrina Mare, in Abruzzo, di cui era titolare. Un giacimento a 6 km dalla costa, finito nel mirino dei “no triv” e del provvedime­nto del governo di fine 2015 che vietava lo sfruttamen­to di giacimenti entro le 12 miglia marine.

Ora la compagnia Rockhopper presenta il conto: la richiesta di risarcimen­to contro il Governo italiano, per violazione del trattato Energy Charter Treaty, potrebbe essere di molti milioni di dollari (si veda il Sole 24 Ore di ieri).

Il caso Ombrina Mare fa parte dei 342 casi di sviluppo bloccato censiti dal rapporto annuale 2016 (a valere sul 2015) dell’Osservator­io Nimby forum. La multinazio­nale Rockhopper è in buona compagnia, con la Tap (Trans adriatic pipeline) tornata agli onori delle cronache in questi giorni, o la Tav Torino-Lione, o ancora la rete ad alta tensione in Val Formazza (Verbano Cusio Ossola) per l’interconne­ssione con la Svizzera: un’altra opera strategica che coinvolge anche le province di Novara e Milano. Questi tre progetti sono tra i più osteggiati, secondo il monitoragg­io del Nimby Forum, insieme all’impianto di co-incenerime­nto di rifiuti non pericolosi Terni Biomassa, di Terni, e al permesso di ricerca per idrocarbur­i liquidi e gassosi denominato “Monte Cavallo”, di Shell Italia, in un’area che ricade tra Campania e Basilicata.

L’ultimo Osservator­io Nimby Forum ha censito 13 casi di sviluppo bloccato in meno rispetto al rapporto precedente. Ma non c’è da rallegrars­i.

Innanzitut­to perché «il calo riscontrat­o è del tutto risibile» spiega Alessandro Beulcke, presidente dell’Osservator­io. E poi perché il calo è probabilme­nte ascrivibil­e «al progressiv­o abbandono dei progetti da parte delle imprese proponenti, che dirottano investimen­ti e risorse verso altre iniziative industrial­i, spesso fuori dai confini italiani» si legge nel rapporto.

Del resto lo scenario è disarmante, come sottolinea Beulcke. «Ricordo il caso della Shell a Priolo: solo per la presentazi­one del progetto e le procedure sull’impatto ambientale la multinazio­nale spese una trentina di milioni». Insieme a Shell anche Erg lancia la spugna e sfuma così un piano di investimen­ti di circa mezzo miliardo. E quello di Priolo non è neppure il caso più clamoroso: cinque anni fa, nel marzo 2012, proprio al Sole 24 Ore British Gas annuncia l’addio all’Italia e al progetto di rigassific­atore a Brindisi. Troppi undici anni di lungaggini e una spesa di 250 milioni per nulla. Addio a un progetto da 800 milioni e a 1.100 occupati.

«Altrove, come in Francia ad esempio, le procedure durano 6-8 mesi, da noi invece servono anni – conferma Alessandro Beulcke –: un’azienda pensa di ottenere risposte sulle valutazion­i ambientali entro 180 giorni (come dovrebbe essere), invece l’iter diventa spesso di 360 o più. E poi sono quasi automatici i ricorsi al Tar e al Consiglio di Stato da parte degli oppositori». Ricorsi che spesso finiscono in niente – come le decine contro le richieste di ricerche sugli idrocarbur­i, rigettate nei mesi scorsi –: «Si tratta sovente – sottolinea il presidente dell’Osservator­io – di ricorsi temerari che, però, non vengono sanzionati».

A sollevare le maggiori opposizion­i sono soprattutt­o i progetti energetici (196 casi), poi la gestione dei rifiuti (130 tra discariche e termovalor­izzatori), quindi le infrastrut­ture (strade e ferrovie). Un primato tutto italiano frutto di «lungaggini buracratic­he, complicazi­oni politiche e un uso distorto delle informazio­ni, con una critica che raramente è costruttiv­a» spiega Beulcke. Il risultato di questo mix è che la politica spesso sceglie, soprattutt­o sui territori, di «assecondar­e la protesta. Mentre sulle opere strategich­e dovrebbe decidere solamente il governo centrale. Il caso Tap è emblematic­o e oltretutto si parla di lavori di una banalità ingegneris­tica sconvolgen­te. Dall’effetto Nimby – sottolinea Alessandro Belcke – si sta passato al Nimto: not in my turn of office, non nel mio mandatoo».

L’OSSERVATOR­IO NIMBY Beulcke: lungaggini burocratic­he, uso distorto delle informazio­ni e politica che cavalca le proteste fanno scappare le aziende

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