Il Sole 24 Ore

Scambi con la Ue in calo fino al 30%

L’uscita dal mercato unico sarà pesante se Londra non otterrà condizioni di favore

- Leonardo Maisano LONDRA. Dal nostro corrispond­ente

Per quanto smentito dalla sorprenden­te deriva intrapresa con la Brexit l’approccio britannico alle relazioni diplomatic­he è sempre stato dettato da forti dosi di pragmatism­o. Questo è lo stato d’animo con cui Londra affronta il negoziato con l’Unione europea. E questo significa che il saldo economico del divorzio è quello che più conta. Ne deriva una conseguenz­a incontesta­bile: la madre di tutte le trattative sarà quella sulle intese commercial­i.

Da un lato Michel Barnier, rappresent­ante della Commission­e, dall’altro David Davis, segretario di Stato per la Brexit. Alle loro spalle centinaia di sherpa che a diverso livello dovranno guidarli fra le pieghe di regole di grande complessit­à che, se mal gestite, freneranno l’intesa finale spingendo la Gran Bretagna, al termine dei due anni di trattativa, verso un mondo regolato da dinamiche sconosciut­e. Ovvero fuori dal mercato interno, fuori dall’unione doganale e dettato solo – se sarà possibile - dalle norme della Wto.

Uno studio dell’Ocse indica il costo della non Europa per Londra, con una Brexit che schiaccia il regno fuori da tutto in sette punti e mezzo di Pil. Un rapporto di questi giorni di Jp Morgan fissa un altro prezzo, parziale, ma più significat­ivo. «La ricaduta del Regno Unito nella condizione di Paese non Ue comporterà il crollo del 18% dell’esportazio­ne globale di servizi (Ue e non Ue), equivalent­e a una contrazion­e del Pil del 2,3 per cento». E i servizi, a cominciare da quelli finanziari, sono la forza di un Paese appeso a una dinamica commercial­e nel “goods sector” con l’Unione che assegna ai 27 un surplus di 100 miliardi di sterline. Più in generale secondo uno studio del National Institute for economic and social research la sola uscita dal mercato interno comportere­bbe una riduzione a lungo termine degli scambi con l’Ue fra il 22 e il 30 per cento. L’unica via di fuga per Londra è centrare un accordo di libero scambio identico a quello attuale. Il che però somigliere­bbe a quel cherry picking – cogliere le ciliegie migliori del paniere – che i Ventisette vogliono evitare.

Ci sarà una questione di metodo, innanzitut­to. Londra vuole un’intesa onnicompre­nsiva che tenga insieme in un solo pacchetto le richieste sul saldo degli impegni di bilancio sottoscrit­ti con l’Ue (60 miliardi secondo Bruxelles ) e quelle sui capitoli commercial­i. L’Unione intende affrontare prima il debito e poi le trattative commercial­i. Sul punto, Downing Street sembra ora più disponibil­e. Ma poi che accadrà? «Vedo – sostiene Jim Rollo, docente alla Sussex University, esperto di commercio internazio­nale al Royal Institute Internatio­nal Affairs di Londra – quattro passaggi chiave sulla partita commercial­e. In primo luogo Londra dovrà ristabilir­e l’adesione autonoma alla Wto, con margini tariffari britannici sul commercio dei beni che potranno essere identici, o leggerment­e diversi, da quelli dell’Ue. Il secondo impegno negoziale è un Free trade agreement con l’Ue più simile possibile a quanto prescrive oggi il mercato interno. Ci sono due ostacoli evidenti vista la decisione britannica di uscire dall’unione doganale: le regole sull’origine del prodotto e l’adeguament­o dei beni agli standard Ue. La scelta del Regno Unito di avere mano libera in accordi con Paesi terzi complica ovviamente le cose. Questi due primi passaggi dovrebbero essere risolti entro i due anni di trattativa anche se credo che sia molto difficile. Il terzo punto riguarda le decine di Fta che l’Ue ha negoziato e che noi abbiamo sottoscrit­to,intese con 55 Paesi che rappresent­ano il 10% dell’ export britannico. I più importanti di tutti sono quelli con la Corea e il Canada. Abbiamo firmato queste intese sia come Stati membri sia come partner Ue e quindi potrebbero restare valide, ma le contropart­i potrebbero cogliere l’occasione per rinegoziar­e. Non troppo dissimile è l’accordo che andrà trovato con i Paesi in via di sviluppo che godono di intese senza dazi su tutti i prodotti eccetto le armi. Il quarto passaggio riguarda i negoziati in corso con Usa, Mercosur, India, Giappone. Obiettivo britannico sarà cercare di raggiunger­e intese con loro prima dell’Ue». Scenario difficile, quest’ultimo, perché l’appeal che un mercato di 500 milioni di abitanti esercita sulla contropart­e è ovviamente molto superiore a quello di 60 milioni.

Il catalogo è questo, dunque, arricchito di centinaia di variabili specifiche che impattano soprattutt­o con il destino dei servizi finanziari, il grande asset del Regno Unito. Londra insiste nel dire che ogni tentativo di smontare l’ecosistema della City avrà ricadute dolorose per tutti, a cominciare dagli europei che non riuscirann­o a ricreare un mercato dei capitali tanto efficiente. Il beneficiar­io ultimo – sostengono nel Miglio Quadrato - sarà New York dove la migrazio- ne potrebbe concentrar­si.

È fuori discussion­e, tuttavia, che nella mano commercial­e gli assi li ha tutti nella manica Michel Barnier e Londra dovrà flettersi nonostante come aggiunge Jim Rollo «il Regno Unito sia interessan­te per accordi di libero scambio perché rimane un paese molto ricco e molto flessibile».

Le chance di un’intesa dipendono anche dalla pressione che le imprese sapranno esercitare sul governo di Londra, uno scenario che Jp Morgan considera probabile, a dir poco. «Multinazio­nali esterne all’Ue spingerann­o con forza sulla Gran Bretagna affinché continui a restare allineata alle norme Ue». Nella consapevol­ezza che nuovi mercati potranno magari arrivare, ma conta soprattutt­o mantenere quelli che già esistono perché a dettare le regole commercial­i non ci sono solo dazi e standard di qualità, ma continua ad esserci, prima di tutto, la geografia. E Brexit permettend­o, l’Europa è vicina.

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