Usa, svolta energetica senza lavoro
Il dietrofront di Trump sull’ambiente a favore del carbone non farà tornare l’occupazione persa
A sentire la Casa Bianca i minatori negli Usa sono un imponente esercito di lavoratori e elettori che chiede di poter scendere nei pozzi. E il carbone un’industria che morde il freno di regolamentazioni ambientali punitive per tornare in auge. Non è così: il settore impiega forse cinquantamila dipendenti, tra i quali pochissimi minatori. Una frazione dei 250mila che aveva negli anni 80. E se produce ancora un terzo dell’elettricità americana, questa percentuale è in brusco calo dal 50% di pochi anni or sono, prima del boom da fracking del gas naturale come fonte più conveniente e meno controversa e della continua avanzata delle fonti rinnovabili.
È una matematica che minaccia di lasciare pochi spazi alle promesse di Donald Trump di dar vita a una «nuova era» e di por fine alla «guerra al carbone». E che potrebbe invece trasformare l’eredità del cambio di rotta di Trump sull’energia in una scottante controversia sui danni ambientali e i passi falsi diplomatici e politici dell’amministrazione americana, senza effetti mitiganti sull’occupazione e l’economia.
Anche in termini di consumo complessivo di energia, il carbone oggi in America è scivolato a rappresentare il 16%, unica fonte in storico e brusco declino, mentre il gas conta per il 29%, il petrolio per il 37%, le rinnovabili per il 10% e il nucleare per il 9%. La sola energia solare dà al momento lavoro a 260mila persone. Le energie rinnovabili vantano nell’insieme 650mila addetti. Nel solo ultimo anno - statistiche di gennaio del Dipartimento dell’Energia - il solare ha creato 73mila posti di lavoro, frutto di una crescita del 25%, la maggiore in sette anni. L’eolico ne ha creati altri 25mila.
La forze di mercato, ben più di qualunque vero e presunto eccesso di norme o approccio ideologico, stanno mettendo all’angolo i carburanti fossili più inquinanti. Nè la rivoluzione promessa da Trump può riportarli in vita.
Tutte le carte degli analisti e del governo, in realtà, sono univoche sull’impatto economico minimo rispetto invece ai gravi interrogativi sollevati sul rischio ambientale e anche politico corso: nelle forniture di energia elettrica, con o senza il piano Clean Power Plan di Obama per tagliare le emissioni dell’effetto serra e che Trump sta annullando, la traiettoria varia di poco. Il gas naturale, prevedono gli uffici studi dell’amministrazione, riprenderà a marciare fino a generare circa 1.800 miliardi di kWh entro il 2040. Normative statali e locali in vigore anche con i tagli federali, assieme agli sviluppi tecnologici, secondo Morningstar dovrebbero alzare la quota di energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili al 20% trainata da progetti in grandi stati, per un totale di quasi 1.300 miliardi di kWh. Il carbone, anziché diminuire grazie alle norme ecologiche, potrebbe inscenare un mini-recupero ma rimarrà poi sostanzialmente stagnante come il nucleare.
La Casa Bianca potrebbe però rinunciare a guidare e governare al meglio simili cambiamenti, questi sì potenzialmente epocali, se continuerà la sua crociata per il carbone. C’è chi teme, con quelle ambientali, anzitutto le ripercussioni politiche della svolta. Queste hanno un nome certo: la Cina. Svuotando gli strumenti per rispettare l’accordo di Parigi sul cambiamento climatico, la Casa Bianca cede la leadership ambientale a Pechino, il maggior Paese inquinante davanti agli Usa, che ha a sua volta preso impegni contro l’effetto serra e potrebbe avere buon gioco nel premere perché sia Washington a rispettare i suoi. E la Cina sta effettuando anche una scommessa industriale, oltre che politica, sulle energie rinnovabili.