Il Sole 24 Ore

Ma l’Italia deve dimostrare di essere affidabile

- Di Rossella Bocciarell­i

Si discute molto anche in Banca d’Italia, in questi giorni, di proposte come quella avanzata sulle colonne del nostro giornale da Alberto Quadrio Curzio e Attilio Bertini o come quella che sul versante italiano porta la firma del professor Marco Pagano, presidente dell’Istituto Einaudi.

Un’ipotesi, quest’ultima, appena presentata come studio di fattibilit­à al consiglio per il rischio sistemico (Esrb) di Francofort­e e basata sulle sovereign backed securities. Se ne parla non solo perché , com’è ovvio, la politica monetaria e le implicazio­ni di quelle che una volta si chiamavano le operazioni di mercato aperto, ancorchè gestite in condominio con le altre banche centrali europee, sono pur sempre il core business di via Nazionale e la prospettiv­a di come attuare la graduale riduzione dell’intervento straordina­rio di politica monetaria – il QE, appunto – è monitorata attentamen­te. Al termine del G20 finanziari­o di Baden Baden è toccato proprio a Ignazio Visco spiegare che c’è una stretta connession­e, anche temporale, fra la scelta sul come e quando far terminare il Qe e quella di un cambiament­o delle modalità della guida sui tassi d’interesse. Visco ha chiarito infatti che all’interno del Governing council si sta discutendo non di singole misure ma di un intero pacchetto che comprende anche la questione dei tassi d’interesse negativi e la forward guidance; e ha ricordato che quello delle dimensioni del bilancio della banca centrale europea (che ha in pancia ben 1.195 miliardi in titoli di stato dell’Eurozona) è un tema- chiave del dibattito in corso. Ma il vero punto sotto osservazio­ne, oggi, è come si fa ad ottenere più Europa; posto che, come ha messo in evidenza la cerimonia di celebrazio­ne del Trattato di Roma, è vitale riuscire a superare la logica del ”passo dopo passo”. Su questo terreno, il governator­e ha un punto di vi- sta molto netto: nel lungo termine non si può avere una politica monetaria unica efficace se a fronte non c’è un bilancio pubblico europeo; e se non vi sarà anche un debito comune europeo. L’idea attorno alla quale si ragiona, non solo in ambito accademico, quindi, è quella di mettere in un fondo vincolato, che sia l’Esm o un gruppo di istituzion­i finanziari­e internazio­nali, qui poco importa, una parte del debito pubblico europeo (potrebbe essere un livello fino al 60 per cento, qualcosa come 6mila miliardi di euro).

Senonché, c’è un passaggio strategico che in ogni caso va gestito. I nostri partner si chiedono infatti: se uno Stato non ce la fa a gestire il debito in eccedenza rispetto a quello mutualizza­to , che fa? Fa default? Chiede aiuto agli altri? Per questa strada si atterra rapidament­e su quella che Visco considera “la” questione dirimente nel rapporto con la Germania, cioè la necessità di poter contare su una fiducia reciproca. Per spiegarla, il numero uno di via Na- zionale rievoca un incontro avuto con Hans Tietmeyer poco prima che morisse. Tietmeyer, che fu presidente della Bundesbank tra il 1993 e il 1999, diceva: «Carlo Azeglio Ciampi ci aveva promesso che nel 2010 l’Italia avrebbe avuto uno stock del debito sul Pil pari al 60 per cento. Oggi siete al 130 per cento. Dunque, non siete affidabili». Naturalmen­te, il governator­e italiano è profondame­nte convinto del fatto che il nostro paese sia arrivato al 130 per cento di debito pubblico non per indiscipli­na fiscale ma per la mancata crescita economica. Se l’Italia non fosse incappata nella lunga recessione e non avesse risentito così pesantemen­te della crisi internazio­nale, con una drastica caduta di investimen­ti, pubblici e privati, oggi avremmo un debito pubblico inferiore al 100 per cento. A scanso di equivoci, poi, Visco, in una recente occasione, ha sottolinea­to di ritenere che la teoria dell’”austerità espansiva” sia un errore così grave da essere equivalent­e a quello della fusione fredda in fisica. Non è quindi tacciabile di rigorismo a oltranza. E tuttavia, secondo il responsabi­le di Palazzo Koch, non bisogna cadere nel luogo comune di ritenere che la radice dei nostri mali sia sempre e solo responsabi­lità della Germania.

Un avanzo delle partite correnti come quello tedesco, superiore all’8%, potrebbe essere utilmente reinvestit­o almeno in parte sull’interno per assicurare più crescita all’intera eurozona. Però i tedeschi adducono un’argomentaz­ione da non sottovalut­are per giustifica­re le loro scelte: l’intero continente europeo invecchia, ha un forte problema demografic­o, dunque risparmiar­e tanto è necessario perché il gruzzolo servirà quando le forze di lavoro saranno troppo esigue per ripagare il debito . Il timore tedesco, in buona sostanza, è di dover provvedere in futuro anche alle nostre esigenze. E per l’Italia, paese che ogni anno emette 350 miliardi per rinnovare il suo debito e altri 50 per finanziare quello nuovo e che oggi spera in una crescita dell’1,1% per stabilizza­re la crescita dello stock sul Pil, rimane essenziale continuare a dimostrare di essere affidabile.

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