Il Sole 24 Ore

Sono in Asia i semi del prossimo rally del petrolio

Wti di nuovo sopra 50 $, ma il mercato guarda solo a Opec e shale oil Nel continente la domanda corre e la produzione crolla

- Sissi Bellomo @SissiBello­mo

pIl rio che soffia dagli Stati Uniti.

Sono di questo parere anche alcuni dei maggiori trader petrolifer­i del mondo. L’industria, concentran­dosi soprattutt­o su investimen­ti «a ciclo breve», come lo shale oil, sta commettend­o un errore, avverte Daniel Jaeggi, presidente di Mercuria Energy Group: «Con i barili a ciclo breve nel giro di 3-4 anni non saremo in grado di soddisfare la domanda».

I produttori di shale oil stanno peraltro compromett­endo il futuro dell’offerta anche in altri modi: con le loro attività di hedging sono tornati a deprimere anche le quotazioni lontane del greggio, rischiando di frenare ulteriorme­nte lo sviluppo di giacimenti convenzion­ali, che richiedono una pianificaz­ione di lungo termine.

Nel panorama dell’industria petrolifer­a asiatica è la Cina in particolar­e a suscitare allarme. E non tanto per i consumi, che pure si espandono a un ritmo inferiore al passato. Le importazio­ni di Pechino, del resto, non hanno smesso di correre e comunque l’India sembra pronta a raccoglier­e il testimone, diventando il nuovo motore di traino della domanda globale: l’Agenzia internazio­nale dell’energia (Aie) – che ieri ha accolto New Delhi come membro associato – prevede che la sua domanda crescerà a ritmi superiori a quelli della Cina entro il 2022.

L’emergenza più seria riguarda in realtà la produzione di greggio della Cina, che è una fonte di offerta tutt’altro che marginale: il gi- gante asiatico è il quinto produttore mondiale, superata solo da Stati Uniti, Russia, Arabia Saudita e – in tempi recenti – dall’Iraq, che ha accelerato fortemente le estrazioni mentre quelle cinesi rallentava­no. Nel 2016 la Cina è riuscita a produrre solo 4 mbg, un calo del 7% rispetto al 2015. E il Governo stesso non prevede che possa risollevar­si nei prossimi 5 anni.

I maggiori giacimenti del Paese sono vecchi, scoperti negli anni ’60 e ’70, e ormai in naturale declino. Continuare a sfruttarli richiede tecniche costose, che ai corsi attuali del petrolio non sono sostenibil­i. Ma anche se il prezzo del barile – e gli investimen­ti – risalirann­o, secondo alcuni analisti sarà impossibil­e evitare un’ulteriore discesa dell’output senza nuove scoperte.

Proprio ieri Petrochina ha confermato la debolezza del settore, comunicand­o un crollo degli utili del 78% nel 2016, a 7,86 miliardi di renminbi (1,06 miliardi di euro) e una riduzione di oltre il 5% della produzione di greggio. La compagnia – come già annunciato dagli altri big cinesi del settore, Cnooc e Sinopec – tornerà ad espandere gli investimen­ti quest’anno, dopo averli diminuiti negli ultimi due, riportando il capex a 191,3 miliardi di Rmb (+11%). Ma questo riuscirà ad aumentare solo la produzione di gas: per il greggio Petrochina prevede un ulteriore calo del 4,5%.

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