Società di comodo, il test legittima i controlli
pÈ legittimo l’accertamento fondato sul test di operatività poiché si tratta di un criterio di determinazione del reddito stabilito dalla legge, che esclude ogni discrezionalità. È il contribuente a dover fornire la prova contraria dimostrando l’esistenza di situazioni oggettive e straordinarie, indipendenti dalla propria volontà che abbiano impedito il raggiungimento del reddito minimo. Ad affermarlo è la Corte di cassazione con l’ordinanza 8218 depositata ieri.
L’agenzia delle Entrate notificava degli accertamenti a una società esercente attività alberghiera fondati sulla presunzione di non operatività determinata attraverso i coefficienti previsti per legge.
I provvedimenti venivano impugnati evidenziando che la contribuente aveva affittato la propria e unica azienda in ciascuno degli esercizi accertati, con la conseguenza che la norma antielusiva sulle società di comodo non poteva trovare applicazione.
Il giudice di primo grado riteneva fondate le rimostranze della contribuente, mentre il collegio di appello, in totale riforma della sentenza, rilevava che la società non aveva adeguatamente giustificato l’inoperatività presunta secondo legge. La contribuente ricorreva così in Cassazione lamentando, in estrema sintesi, un’errata interpretazione della norma.
I giudici di legittimità, confermando la decisione, hanno evidenziato che in materia di società di comodo, i coefficienti pre- visti dalla legge sono fondati sulla correlazione tra il valore di determinati beni patrimoniali e un livello minimo di ricavi e proventi. La determinazione dell’imponibile deriva così da precisi criteri che escludono qualsiasi discrezionalità (Cassazione 13699/2016). Spetta poi al contribuente fornire la prova contraria e dimostrare l’esistenza di situazioni oggettive e straordinarie, indipendenti dalla sua volontà che abbiano impedito il raggiungimento della soglia di operati- vità (Cassazione 21358/2015).
Nella specie, la Ctr aveva valutato che la società era stata gestita in perdita senza obiettivi di profitto: l’unico bene era stato concesso in locazione ad un canone non congruo rispetto al mercato, con la conseguenza che le entrate non erano sufficienti per sostenere le rilevanti spese di risanamento e ristrutturazione sostenute negli anni.
La Suprema Corte ha così concluso che tali circostanze erano sufficienti per non superare il test di operatività, senza che fosse necessario verificare l’esistenza di intenzioni fraudolente o elusive. Peraltro, nella sentenza è stato precisato che la società non aveva fornito la prova contraria rispetto alla «plateale antieconomicità delle spese di ristrutturazione sostenute». Da qui il rigetto del ricorso. La decisione pare fornire un’interpretazione particolarmente rigorosa della norma sulle società di comodo. È tuttavia auspicabile che non si crei una sorta di automatismo di determinazione dei maggiori redditi, un po’ come inizialmente avveniva per parametri e studi di settore. Si dovrebbe trattare, infatti, di un accertamento standardizzato, da adeguare necessariamente alla specifica realtà del contribuente.