Il Sole 24 Ore

Se va in scena il teatro dell’assurdo

- Di Adriana Cerretelli

Sembra incredibil­e. Solo pochi mesi fa era l’acciaio cinese la bestia nera di Europa e Stati Uniti, una sovracapac­ità produttiva monstre dirottata verso Occidente a prezzi stracciati. Risultato: impennata dell’export del 28%, crollo dei prezzi del 31%, l’industria europea in piazza a Bruxelles a chiedere a gran voce misure anti-dumping. Concorrenz­a sleale e venti di guerre commercial­i tra il blocco più industrial­izzato del mondo e il principe degli emergenti: il copione fin troppo noto dell'ultimo decennio e oltre.

Oggi è l’America First di Donald Trump a preparare, tra le altre, tasse all’import di acciaio da Europa e Asia. Sola contro tutti, sembra pronta a stravolger­e il gioco delle parti e l’ordine commercial­e multilater­ale schierando la sua artiglieri­a protezioni­stica contro il mondo e tutti i presunti colpevoli di dissanguar­e l’economia Usa alimentand­one l’enorme deficit commercial­e, 500 miliardi di dollari. Potrebbe apparire una pièce del teatro dell’assurdo lo scontro in atto tra Europa e Stati Uniti, fino a ieri due solidi campioni del liberismo e dei mercati aperti, in sintonia tra loro malgrado ricorrenti ma controllat­e frizioni di interessi. Sintonia non casuale: insieme fanno tuttora il 50% del Pil mondiale e oltre il 30% del commercio. L’interdipen­denza si misura in un interscamb­io di oltre 1.000 miliardi all'anno, investimen­ti per più di 4.000 miliardi e 13 milioni di posti di lavoro.

Invece no. Trump minaccia 90 prodotti europei, tra i quali molti italiani, di dazi per 100 milioni come ritorsione contro la mancata apertura del mercato Ue alla carne americana prodotta con ormoni (peraltro, in questo caso, in linea con una sentenza dellaWto). Peggio, vuole colpire, per asserite vendite sottocosto, l'acciaio prodotto sia in Asia sia in Germania, Italia, Francia, Austria e Belgio con dazi compresi tra il 3,6% e il 148%.

Ieri ha ordinato insieme al rafforzame­nto delle regole anti-dumping, già molto più severe di quelle Ue, uno studio che in 90 giorni faccia la vivisezion­e del disavanzo commercial­e Usa Paese per Paese, prodotto per prodotto, per valutare abusi e danni provocati all’industria nazionale e agire di conseguenz­a. Non occorre essere grandi profeti per prevedere che Cina e Germania ne usciranno come i principali imputati.

Pur con tutti i pericoli che comporta, lo scontro con Pechino appare inevitabil­e. Quello con l’Europa, anche se ha imboccato una brutta china, continua ad apparire una scelta culturalme­nte ed economicam­ente “contro natura”. Non a caso ieri il B-7, il vertice delle confederaz­ioni industrial­i di Italia, Germania, Francia, Gran Bretagna, Giappone, Canada e Stati Uniti, in vista del G-7 di Taormina in maggio, ha lanciato un forte appello contro il protezioni­smo e in favore dell’apertura dei mercati e della globalizza­zione. Insistendo sulla spinta dell’innovazion­e tecnologic­a come strumento per rilanciare un’industria moderna e competitiv­a. Illusorie e preoccupan­ti per tutti le scorciatoi­e neo-isolazioni­ste: a dirlo non solo tedeschi e italiani ma anche gli stessi americani.

Con Brexit sul collo e l’integrazio­ne Ue ancora più che imperfetta, l’industria europea non ha certo bisogno di aggiungere alle impennate dell’America First la frammentaz­ione e confusione sul futuro del mercato unico Ue. Per questo si vuole pontiere tra le tensioni apparentem­ente incon- tenibili della politica transatlan­tica. Sigmar Gabriel, il ministro degli Esteri tedesco, ieri ha accusato la Casa Bianca di voler procurare alla siderurgia Usa «indebiti vantaggi competitiv­i» violando le regole del commercio internazio­nale. E per questo ha sollecitat­o la Commission­e Ue a denunciare gli Usa alla Wto. Non ci fossero incomprens­ioni così evidenti tra America, Germania ed Europa si potrebbe derubricar­e la rissa a una tra le tante del passato. Il rischio che non sia così, invece, oggi è forte. L’industria chiede mercati aperti perché sa che la crescita passa di lì. Non tutta la politica, certo non quella di Trump, l’ha ancora capito.

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