Pechino vuole salvare il primato commerciale
La Cina di Xi Jinping teme l’unica guerra in grado di colpire (e, forse, affondare) l’economia e la stabilità del Paese: quella del commercio internazionale, già innescata dal nuovo presidente Usa Donald Trump con la cancellazione di accordi di libero scambio, consolidati e in fieri, accompagnata dalla minaccia di introdurre nuove e più onerose barriere all’export.
L’economia dirigista cinese, tarata sui ritmi del Piano quinquennale - siamo nel secondo anno del 13esimo Piano - è spiazzata dalla rapidità con la quale l’America sta scompigliando assetti consolidati.
Il commercio è un tema cruciale per un gigante come la Cina costretto a fissare nel Work Report 2017 la crescita del Pil in un modesto (e incerto) 6,5 per cento. Sarà, questo, non a caso, il tema chiave del prossimo incontro, il 6 e 7 aprile, tra i due leader a Mar-a-Lago in Florida. Tanto più che gli Usa ventilano l’abbandono del Wto e il contestuale rafforzamento delle “loro” leggi sul commercio: sarebbe il colpo di grazia, la globalizzazione ha reso la Cina ciò che è adesso, il gigante del trade, e l’ansia per tutto ciò che potrà accadere era palpabile nei due esclusivi luoghi di incontro fissati dopo l’annuale Sessione Plenaria del Parlamento cinese, il China Development Forum a Diaoyutai, con premi Nobel e i big dell’economia mondiale in prima fila, e il Forum di Boao che, invece, chiama a raccolta l’Asia, due eventi ai quali Il Sole 24ore ha potuto partecipare.
Intanto, i timori. «Stiamo a vedere cosa deciderà sul com- mercio il presidente Donald Trump», ha detto a Boao il Governatore della Banca centrale cinese, Zhou Xiaochuan, subito dopo aver invitato le Banche centrali di Giappone, Europa e America ad abbandonare quanto prima il quantitative easing perché «quello della liquidità non è un problema, in giro ce ne è fin troppa». Certo, Pechino lotta senza sosta contro la fuga di capitali, per difendere lo yuan e le riserve in valuta. Invece, come ha aggiunto Zhou, «la Cina ha bisogno di uno sviluppo reale e di una maggiore connettività dei servizi».
La strada è in salita. Adesso che Donald Trump ha rimesso in discussione il Nafta e mandato in frantumi il Tpp, tutto in una notte, la questione passa al nuovo Trade Commissioner Robert Lighthizer, fiero oppositore dell’ingresso cinese, ormai 15 anni fa, nel Wto.
Lighthizer in veste di avvocato ha testimoniato contro la Cina, accusandola di aver innescato il trade deficit che toglie posti di lavoro senza dare nulla in cambio.
L’ex segretario di Stato al Tesoro Jacob Lew e l’ex Trade commissioner Michael Froman hanno spiegato a Diaoyutai e Boao davanti a una platea di plaudenti “amici cinesi” di aver fatto tutto il possibile per portare avanti il processo di globalizzazione. Adesso non possono far altro che stringersi nelle spalle e sperare nella nascita di accordi per grandi blocchi d’area che, almeno, recuperino il lavoro fatto finora.
Sì, ma chi terrà le fila di questo gioco planetario?
E, in questo nuovo scenario, che farà la Cina sul fronte del riconoscimento di Market status economy che della marcia cinese verso la globalizzazione rappresentava l’estrema pretesa?
Robert Koopman, chief economist del Wto, dice al Sole 24 Ore: «La risposta è semplice: i Governi, se sono convinti di aver subito gli effetti di una violazione delle regole del commercio internazionale, posso- no presentare un esposto e, in genere, se ci sono validi motivi sottostanti si vince, non si propongono mai questioni prive di fondamento». Che la Cina muova le sue pedine, se ne ha. Anche il Tpp può essere riscritto senza gli Usa? «In teoria sì. Se gli altri 11 si mettono d’accordo e se si riscrivono le regole». Detto a margine, gli Usa hanno il record di ricorsi vinti, 524, la Cina uno. E sugli esposti presentati il rapporto è di sei su nove. Manca l’abilità di gestire simili questioni, è evidente. Perché la Cina è dipendente dalla globalizzazione ma, da sola, non ha la forza per rimpiazzare gli Usa come main driver. Prendiamo l’Aiib, la banca asiatica per gli investimenti nelle infrastrutture, con i nuovi arrivi vanta 70 soci e 2 miliardi di dollari prestiti, può svilupparne 20 all’anno tra cinque, tanto quanto la World Bank, ma questo servirà a consolidare la presenza in Asia, non a sostituire la World Bank, né la Cina può gestire l’impalcatura di accordi che l’ha aiutata a diventare il primo trader al mondo. Anche la One Belt One road initiative (OBOR) è praticabile sul versante euroasiatico, ma è ben difficile che possa abbracciare tutto il mondo.
Un ordine mondiale che parta dalla Cina non è ancora possibile. Anche perché la Cina non ha ancora spiccato il volo nel maneggiare quella catena del valore del commercio che è la reale forza di una grande potenza economica. Un insieme di tools che possono essere usati a prescindere dall’esistenza di accordi o di istituzioni garanti del libero scambio.
Lo illustra bene il Global Value Chain Report 2016, con il quale un pool di ricercatori di World Bank, Wto, Ocse, Uibe hanno esaminato dal 1995-2014 il commercio in 32 settori in 20 anni in 40 diverse economie isolando valori come il costo per unità di prodotto.
L’unico modo che ha avuto finora la Cina di globalizzarsi è stata la catena dei free trade agreeement. Adesso dovrà imparare a far da sola, dunque, e a orientare al meglio le proprie scelte globali, la capacità di inscrivere la propria economia in un contesto globale e di rispondere velocemente ai cambiamenti è cruciale.
Michael Spence, Nobel per l’economia, presente a Diaoyutai, è il grande sostenitore della Global value chain, e un grande sponsor di questo Report. «Finalmente abbiamo la possibilità di analizzare gli elementi specifici del trade non solo i flussi, e questo è possibile farlo per l’arco di un ventennio. Studiandoli a fondo – dice Michael Spence - i Paesi possono cercare di indirizzare le loro scelte. Il settore dei servizi rappresenta complessivamente una porzione sempre più ampia del trade, ed è la porzione più in crescita nella catena del valore».
Nel Report si scopre infatti che il commercio ad alto valore aggiunto ha rappresentato il 6067% del totale, nel periodo dal 2002 al 2008 come effetto dell’adesione della Cina al Wto l’apporto cinese alla global chain è stata maggiore, originando una crescita in termini reali, grazie alla bassa inflazione e all’apprezzamento contro il dollaro.
Poi, si sa, da quegli anni in poi è iniziato il declino, fino alle vicende di questi giorni. Di fatto, negli ultimi 15 anni la catena del valore ha beneficiato negli Usa i lavoratori più qualificati, in Cina se ne sono avvalsi quelli meno qualificati, a milioni hanno lasciato la povertà grazie al valore aggiunto del commercio.
In un contesto sempre più complesso il Report punta sul concetto di globalizzazione inclusiva.
Bene ha fatto Pechino a allargarsi anche nel Sud Est Asiatico. Ma le 4 Pilot free trade zone, ad esempio, non hanno espresso tutto il loro potenziale, devono aprirsi maggiormente. Per non parlare della connettività che deve riuscire a supportare soprattutto le piccole e medie imprese. Insomma, la lezione sull’ottimizzazione del commercio è aperta.
LO SCENARIO La Cina è disorientata dalle politiche americane dopo aver ampiamente beneficiato del multilateralismo