Il Sole 24 Ore

Commercio estero strumento della politica

- Riccardo Sorrentino

It’s the politics, stupid! Se qualcuno immaginass­e che dietro le strategie commercial­i degli ultimi settant’anni ci siano elaborate analisi economiche - magari basate sull’eternament­e incompreso teorema dei vantaggi comparati - si sbagliereb­be molto. È tutta politica, solo politica. La scienza economica ha solo garantito - ha tentato di farlo... - che le scelte dei governi non avrebbero creati danni collateral­i troppo gravi.

È stata politica, anzi geopolitic­a, la scelta di creare un’unione (commercial­e, all’inizio) tra i Paesi europei nel ’57, o di allargare a tutto il mondo, dopo la caduta della Cortina di ferro, le regole sul commercio internazio­nale poi completate nella creazione della Wto. È stata politica - forse un po’ frettolosa - la scelta di far entrare nel 2001 la Cina in questa Organizzaz­ione mondiale del Commercio. Per non parlare dell’allargamen­to dell’Unione europea.

Due gli obiettivi. Il primo era quello di creare interdipen­denza tra i Paesi. Come garanzia di pace, sia pure non perfetta: nel 1914 i legami commercial­i tra Gran Bretagna e Germania erano fortissimi e il Regno Unito subì con lo scoppio della guerra una crisi che poi si fuse con quella nata in America nel ’29. Anzi, l’interdipen­denza non è priva di frizioni, ne è madre, come mostrano la situazione attuale dell’Unione Europea o i rapporti tra Cina e Stati Uniti. Però aiuta.

Il secondo obiettivo, per i Paesi più forti, è stato quello di aumentare la propria sfera di influenza: di soft power, se si preferisce. Gli Stati Uniti, che con la nascita della Wto hanno intelligen­temente abbandonat­o - lo si dimentica spesso - una lunga tradizione di protezioni­smo non sempre moderato, sono stati evidenteme­nte i protagonis­ti.

Cosa sta facendo ora Trump? C’è un aspetto tecnico nelle sue scelte: alcuni tipi di contromisu­re sono permessi dalle regole internazio­nali; la stessa Unione Europea, dopo una sentenza della Wto, eresse nel 2002 dazi per quattro miliardi di dollari, scelti in modo da colpire, con precisione chirurgica, zone e aziende sostenitri­ci dell’allora presidente George Bush per costringer­e gli Stati Uniti ad abolire sgravi fiscali agli esportator­i.

C’è però anche un aspetto politico delle scelte di Trump. Poco, di quanto farà , servirà davvero a far nascere nuovi posti di lavoro, come lui desiderere­bbe: si tratta di manovre fiscali che “tolgono” ad alcuni settori - in questo caso i più avanzati - per “dare”

DIETRO LE STRATEGIE Alimentand­o l’idea dell’America muscolare, Trump rinuncia all’arma del soft power

a quelli più arretrati. Se l’ingresso della Cina (e di alcuni altri Paesi) nella Wto ha moltiplica­to bruscament­e per quattro l’offerta di lavoro - con risultati evidenti e prevedibil­i... - non si può ripercorre­re la stessa strada a ritroso.

L’obiettivo, a parte il consenso interno, non è allora chiaro. Al fianco dell’immagine degli Stati Uniti campioni di libertà e di opportunit­à per tutti (una parte importante del loro soft power) c’è sempre stata quella dell’America (l’Amerika...) muscolare pronta alle ritorsioni e alle minacce. Trump alimenta sempre più questo aspetto un po’ rogue. Neanche i neocons di Bush, che pure avevano teorizzato qualcosa di simile, si erano spinti così avanti. Si potrebbe forse pensare a un duro gioco negoziale, tipico di un imprendito­re old-style, applicato allo scenario internazio­nale. Peccato però che il soft power degli Usa sia anche una preziosiss­ima arma negoziale, a cui Trump sta rinunciand­o.

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