Bombassei nella Automotive Hall of Fame
Ora, a Detroit, c’è un “car guy” che non è di Detroit. Alberto Bombassei, nato a Vicenza settantasei anni fa, ha sviluppato la sua Brembo nelle valli bergamasche e, da ultimo, al Kilometro Rosso di Stezzano. Le sue radici sono, dunque, in quel Nord manifatturiero che, fra la dorsale padana che collega Torino a Venezia e la Via Emilia delle auto da corsa, rappresenta una delle varianti più originali e redditizie del modello italiano, fatto di meccanica e di estetica. Bombassei è entrato a far parte della Automotive Hall of Fame, che ha sede a Dearborn, nel cuore della Detroit Area. Un riconoscimento non da poco, nella comunità dell’auto che - fra la Detroit “Motor City“e la Auburn Hills di Chrysler, la Flint del primo stabilimento della General Motors e la Dearborn della Ford – ha sempre accolto gli stranieri, ma ha valorizzato soprattutto lo spirito e le personalità americane.
Nei suoi ottanta anni, la Automotive Hall of Fame ha premiato 800 figure, fra cui i fondatori delle principali case automobilistiche: Henry Ford (nel 1967), Ferdinand Porsche (1987) e André Citroen (1998).
Prima di Bombassei, vi sono entrati otto italiani: Enzo Ferrari e Ettore Bugatti (entrambi nel 2000), Giovanni Agnelli e Giorgetto Giugiaro (nel 2002), Battista “Pinin” Farina (2004), Nuccio Bertone (nel 2006), Sergio Pininfarina (nel 2007) e Luca Cordero di Montezemolo (2015). Dopo i costruttori di auto e i carrozzieri, adesso tocca a un componentista puro come Bombassei , a indicare l’evoluzione virtuosa di una specia- lizzazione italiana che, grazie all’internazionalizzazione, non è rimasta sotto le macerie della crisi Fiat, fra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila.
La Brembo opera negli Stati Uniti dagli anni ’80 In una prima fase solo nell’assistenza e nell’after market. Da dieci anni con gli investimenti industriali. La prima sede della Brembo – puramente commerciale e tecnica – è stata a Costa Mesa, in California, terra di Ferrari che montano componenti Brembo. Dal 2007, con lo stabilimento produttivo di Homer vicino a Detroit, ha investito l’equivalente di 600 milioni di euro. Il giro d’affari americano sviluppato nel corso di questi dieci anni è stato di poco meno 2 miliardi di euro.
«La crisi dell’auto americana – riflette Bombassei – è stata una crisi di costo del lavoro, ma è stata anche una crisi organizzativa e di scarsa produttività. Dall’Italia, abbiamo trasferito nel Michigan la nostra esperienza di fabbrica. E, in molti, ci hanno guardato con considerazione». L’ultima operazione è la fonderia di dischi freno in ghisa, sorta a fianco dello stabilimento. «Abbiamo creato – aggiunge Bombassei - una fonderia asettica e funzionale, mentre per gli americani le fonderie non potevano che essere sporche e impolverate. Con umiltà, abbiamo portato là la lezione italiana ed europea». L’automotive americano significa manifattura alla ricerca di una nuova identità. Ma significa anche comunicazione. «Negli Stati Uniti - spiega Bombassei – conta non poco il racing. E noi siamo fornitori di molte competizioni». Fra le altre, per le auto la Formula Indy, la Nascar e la 500 miglia di Indianapolis e, per le moto, l’American Superbike. Nel 2016, su ricavi consolidati pari a 2,3 miliardi di euro, 637 milioni di euro sono stati ottenuti nell’area Nafta, Stati Uniti più Canada e Messico. La Germania vale 530 milioni di euro. «Nessuna preoccupazione diretta e immediata per Trump – riflette Bombassei – negli Stati Uniti importiamo pochissimo. Facciamo tutto in loco. La situazione sarebbe diversa in caso di una guerra commerciale scatenata dalla Casa Bianca contro la Germania».
A luglio, negli Stati Uniti si terrà la premiazione del “car guy” di Bergamo che, con le pinze e i dischi dei freni, dall’Italia ha trasformato la meccanica in estetica e l’estetica in manufatto industriale.