Il Sole 24 Ore

Troppo tardi per l’unità fiscale della Ue

- Di Dani Rodrik

Solo una settimana fa l’Unione europea ha celebrato il 60° anniversar­io del Trattato di Roma, con il quale venne istituita la Comunità economica europea. I motivi per festeggiar­e sono e restano indubbiame­nte tanti. Dopo secoli di guerre, sconvolgim­enti politici e uccisioni di massa, l’Europa ha vissuto finalmente un (lungo) periodo di pace e di democrazia. L’Unione europea ha accolto al suo interno undici Paesi dell’ex blocco sovietico, guidando con successo la loro transizion­e verso l’era post comunista. E, in un’epoca di disuguagli­anze, gli stati membri della Ue vantano il più basso divario reddituale rispetto a qualunque altro paese del mondo.

Ma questi risultati sono ormai datati e acquisiti. Oggi l’Unione europea è intrappola­ta in una profonda crisi esistenzia­le, e il suo futuro appare incerto. I sintomi sono visibili ovunque – dalla Brexit agli intollerab­ili livelli di disoccupaz­ione giovanile i n Grecia e Spagna, dall’indebitame­nto e dalla stagnazion­e che affliggono l’Italia all’ascesa dei movimenti populisti, fino a una reazione di rifiuto nei confronti degli immigrati e dell’euro – e tutti indicano la necessità di una revisione radicale delle istituzion­i europee.

Per tutte queste ragioni, il libro bianco sul futuro dell’Europa del presidente della Commission­e europea Jean-Claude Juncker non poteva arrivare in un momento migliore.

In esso, Junker delinea cinque possibili percorsi: proseguire con l’agenda attuale, concentrar­si solo sul mercato unico, consentire un’Europa a più velocità, ridimensio­nare l’agenda o puntare all’ambizioso obiettivo di un’integrazio­ne omogenea e più completa. È difficile non provare solidariet­à per Juncker che - stretto tra i politici europei alle prese con le loro battaglie interne da un lato, e le istituzion­i europee convertite­si in bersaglio della frustrazio­ne popolare dall’altro - non poteva esporsi più di così. Ciò non toglie, però, che il suo rapporto lasci delusi, poiché tralascia la sfida più importante che la Ue dovrebbe affrontare e vincere.

Se si vuole che le democrazie europee tornino in salute, non può continuare a esserci una sfasatura tra l’integrazio­ne economica e quella politica: o l’integrazio­ne politica allunga il passo e raggiunge quella economica, oppure quest’ultima deve rallentare. Finché si eviterà di affrontare questa decisione, la Ue resterà un organismo disfunzion­ale. Di fronte a questa difficile scelta, c’è un’alta probabilit­à che gli stati membri assumano posizioni diverse lungo il continuum dell’integrazio­ne politico-economica, e questo significa che l’Europa deve sviluppare la flessibili­tà e i meccanismi istituzion­ali necessari per soddisfarl­e.

Sin dagli albori, la costruzion­e dell’Europa si è basata su una teoria “funzionali­sta” secondo cui all’integrazio­ne economica sarebbe seguita quella politica. Il libro bianco di Juncker si apre con una citazione del 1950 del fondatore della Comunità economica europea (e primo ministro francese) Robert Schuman: «L’Europa non potrà farsi in una volta sola, né sarà costruita tutta insieme, bensì attraverso realizzazi­oni concrete che creino anzitutto una solidariet­à de facto». Cominciamo col mettere a punto i meccanismi della cooperazio­ne economica, poi questo preparerà il terreno per delle istituzion­i politiche comuni. All’inizio questa strategia ha funzionato: l’integrazio­ne economica restava un passo avanti rispetto all’integrazio­ne politica, ma non troppo avanti. Poi, dopo gli anni Ottanta, l’Ue fece un salto nel buio, adottando un’ambiziosa agenda del mercato unico che puntava a unificare le economie europee, indebolend­o le politiche nazionali che intralciav­ano la libera circolazio­ne non solo di beni, ma anche di servizi, persone e capitali. L’euro, che istituiva la moneta unica in un sottogrupp­o di paesi membri, fu la logica prosecuzio­ne di questo programma. Fu una sorta di iper-globalizza­zione su scala europea. La nuova agenda era trainata da molteplici fattori. Molti economisti e tecnocrati pensavano che i governi europei fossero diventati troppo interventi­sti e che una profonda integrazio­ne economica e una moneta unica avrebbero disciplina­to gli Stati. In quest’ottica, lo squilibrio tra le fasi economica e politica del progresso d’integrazio­ne rappresent­ava una caratteris­tica, non un difetto. Molti politici riconobber­o che tale squilibrio poteva creare problemi, ma diedero per scontato che il funzionali­smo alla fine avrebbe aiutato e che, nel tempo, le istituzion­i politiche quasi federali necessarie per sostenere il mercato unico si sarebbero sviluppate. Le principali potenze europee fecero la loro parte. I francesi pensarono che trasferire l’autorita economica ai burocrati di Bruxelles avrebbe favorito il potere nazionale e il prestigio globale della Francia. I tedeschi, spinti dal desiderio di ottenere il consenso francese alla riunificaz­ione della Germania, li assecondar­ono.

Un’alternativ­a c’era. L’Europa avrebbe potuto incoraggia­re lo sviluppo di un modello sociale comune parallelam­ente all’integrazio­ne economica, che avrebbe reso necessaria l’integrazio­ne non solo dei mercati, ma anche delle politiche sociali, delle istituzion­i del mercato del lavoro e delle disposizio­ni fiscali. La diversità tra i modelli sociali in Europa, unitamente alla difficoltà di raggiunger­e un accordo su regole comuni, avrebbe posto un freno naturale al passo e all’estensione dell’integrazio­ne. Lungi dall’essere uno svantaggio, cio avrebbe offerto un’utile misura correttiva per una velocità e un’ampiezza dell’integrazio­ne più auspicabil­i. Il risultato avrebbe potuto essere una Ue più piccola e più profondame­nte integrata nel complesso, oppure una Ue con lo stesso numero di membri di oggi, ma molto meno ambiziosa in termini di portata economica. Ormai potrebbe essere troppo tardi per tentare un’integrazio­ne fiscale e politica dell’Unione. Meno di un europeo su cinque e favorevole alla cessione di poteri da parte degli Stati-nazione che ne fanno parte. Gli ottimisti diranno che cio non dipende tanto da un’avversione verso Bruxelles o Strasburgo in se quanto dall’associazio­ne del concetto di “più Europa” all’insistenza dei tecnocrati sul mercato unico e dall’assenza di un modello alternativ­o convincent­e. Forse i nuovi leader e le formazioni politiche emergenti riuscirann­o a elaborare un simile modello e a riaccender­e l’entusiasmo per un progetto europeo riformato. D’altro canto, i pessimisti spereranno che, in qualche angolo nascosto dei corridoi del potere a Berlino e Parigi, economisti e avvocati stiano segretamen­te lavorando a un piano B da attuare il giorno in cui un allentamen­to dell’unione economica non potrà più essere rinviato.

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