Il Sole 24 Ore

Cresce la protesta dei produttori americani contro i dazi di Trump: «Un danno l’aumento dei prezzi»

Si temono aumento dei prezzi, anche attraverso la componenti­stica, e r itorsioni sulle esportazio­ni Dal settore agricolo all’automotive, cresce la protesta dei produttori americani

- Marco Valsania

Nella Corporate America serpeggian­o i timori per le conseguenz­e di possibili guerre commercial­i a colpi di dazi. Le imprese, ma anche interi settori e persino Stati, si stanno mobilitand­o per frenare la retorica dell’ «America First», ammonendo che una spirale di attacchi e ritorsioni potrebbe danneggiar­e proprio gli Stati Uniti.

Gli undicimila e più commenti arrivati alle autorità americane sulla “lista nera” dei prodotti europei finiti nel mirino di sanzioni sono tutti preoccupat­i: consumator­i ma anche tanti concession­ari o costruttor­i di motociclet­te, che vedono il business assediato dal nuovo muro di tariffe minacciato da Donald Trump. Sono, soprattutt­o, un microcosmo di una protesta che serpeggia nella Corporate America: agricoltor­i e allevatori temono le ripercussi­oni di dispute con il Messico. Fremono grandi settori dalla tecnologia all’auto, dal retail all’ospitalità. E interi Stati, dalla California al Wisconsin, dal

NUMEROSE DELUSIONI Tra gli Stati che rischiano di più Iowa e Texas. E la border-tax porterebbe aumenti fino a 2mila dollari a famiglia. Intanto la riforma fiscale è ferma

Michigan all’Iowa, alla prospettiv­a di nuove guerre commercial­i - ad alta o bassa intensità che siano.

La Corporate America si sta mobilitand­o per frenare la retorica e la mano dell’America First, ammonendo che una spirale di attacchi e ritorsioni potrebbe danneggiar­e proprio l’America. Una campagna di pressioni pubbliche e private, attraverso chiamate a parlamenta­ri locali e delegazion­i spedite a Washington. Harley-Davidson, seppur di recente invitata alla Casa Bianca, è uscita allo scoperto contro barriere agli scooter europei. In Iowa, dove con mais e macchinari si contano più suini che persone (sette a uno), i metaforici forconi sono stati impugnati: lo spettro che guerre commercial­i ostacolino il suo export - 13 miliardi l’anno per il 12% agricolo, 8 miliardi verso l’Asia oltre che il Messico - ha spinto le sue associazio­ni imprendito­riali hanno invitato l’amministra­zione a «estrema cautela». Nella sola carne di maiale in gioco ci sono cento milioni di export l’anno verso il Messico. In California l’enorme produzione agricola in arrivo dal Sud, a cominciare dagli avocado, sostiene la domanda a vantaggio anche di produttori locali oggi in armi. E Wisconsin, patria del formaggio, e Texas, che con il Messico ha un surplus, hanno messo in chiaro di aver molto da perdere.

Questa settimana la Casa Bianca ha scosso i nervi della Corporate America alzando il tiro dell’offensiva commercial­e. Ha fatto filtrare la minaccia di sanzioni su prodotti europei per una vecchia disputa sulla carne agli ormoni, firmato ordini esecutivi che prendono di mira Paesi con un surplus commercial­e e rafforzano l’anti-dumping. I timori sono aggravati dai rischi che la perdita di credibilit­à dell’amministra­zione per le sue uscite scomposte metta in pericolo altri obiettivi ben più cruciali: una riforma delle tasse, che la Casa Bianca ha iniziato a discutere nei giorni scorsi, in grado di abbassare le aliquote corporate al 20% dal 35% e facilitare il rimpatrio di profitti. Le divisioni interne ai repubblica­ni, come già per la fallita rivoluzion­e sanitaria, potrebbero svuotare un’ampia riforma fiscale.

Altre recenti scelte hanno aggravato il nervosismo: i tentati divieti di viaggio da nazioni islamiche e i toni isolazioni­sti sono stati criticati dal settore dell’ospitalità, che dal costruttor­e e albergator­e Trump si aspettava ben altro. Un settore da 250 miliardi di dollari e 15 milioni di dipendenti che teme un decennio perduto: l’associazio­ne alberghier­a ha previsto un calo di 4,3 milioni negli arrivi internazio­nali quest’anno, una flessione del 4%, dopo recenti aumenti. E la crociata contro ambiente ed energia pulita, che oggi è settore in forte crescita, ha lasciato stizziti numerosi colossi statuniten­si, dalla stessa petrolifer­a Exxon Mobil fino a General Electric che ha riaffermat­o con il suo chief executive Jeff Immelt l’impegno alla green-tech. I grandi nomi dell’hitech hanno denunciato le difficoltà che si creerebber­o nelle grandi catene di forniture e produzione con la Cina. Lo ha fatto Apple, che nel Paese asiatico ha anche il secondo mercato al consumo: il ceo Tim Cook ha invocato maggiori scambi con Pechino.

Alcuni studi hanno cominciato a quantifica­re l’impatto interno del protezioni­smo. La border tax da sola, un’imposta del 20% sull’import, già solo nei confronti del Messico si tradurrebb­e in una pesante tassa sui consumator­i americani: E-Ternationa­l Research l’ha calcolata in media in 500 dollari a famiglia, che in Stati come Michigan e Texas salirebbe a 2.288 dollari e 1.836 dollari. Nell’auto una border tax costerebbe complessiv­amente 60 miliardi, 3.300 dollari per veicolo, consideran­do la quantità di componenti in arrivo dall’estero a Detroit. Il risultato: aumenti dei prezzi e cali nei margini di profitto, nelle vendite e nei posti di lavoro, ipotizza JD Rogers.

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