Il Sole 24 Ore

Quei giochi temerari tra Roma e Bruxelles

- Di Carlo Bastasin

In una parte del governo e del partito di maggioranz­a si fa largo la tentazione di sfidare i partner europei e resistere alla richiesta di maggior ordine nei conti pubblici.

Il confronto tra “politici” e “tecnici” al governo riguarda l’intento dei primi di rendere più ampie e permanenti le clausole di flessibili­tà, cioè di maggior spesa pubblica, tanto indigeste ai partner. Dietro questa sfida c’è la convinzion­e che l’economia italiana e ancor più il debito pubblico pesino troppo nell’area euro perché i partner e le istituzion­i europee possano permettere un default. Anche se un po' di indiscipli­na in più facesse risalire i tassi italiani, la Bce sarebbe costretta a intervenir­e per evitare un'instabilit­à così grave da colpire tutta l'area euro. È quello che gli americani chiamano un “gioco di galline”, una sfida a chi frena per ultimo sull'orlo del burrone.

Per evitare che il gioco finisca male, che cioè si cada nel burrone, oppure che l'euro e la Bce perdano credibilit­à, o che gli altri Paesi decidano che con un partner che fa i comodi propri non possono più convivere, sono in corso trattative complicate. Governi nazionali e istituzion­i europee si muovono in una zona di compromess­o: si riafferma il valore delle regole, ma poi si fa quello che si può, cercando di minimizzar­e i costi politici. Da un lato i governi non vogliono essere sanzionati e dall'altro la Commission­e Ue deve salvare faccia e regole. In fondo, chi può essere contrario a un po' di pragmatism­o?

Purtroppo, tuttavia, la vicenda italiana sta superando i limiti del pragmatism­o: il debito non ha mai smesso di aumentare e l’alternativ­a tra correzione della politica di bilancio e intervento europeo sembra inevitabil­e.

Un Paese incorre in una procedura per disavanzo eccessivo se infrange il criterio del deficit, cioè supera la soglia del 3% del Pil, oppure il criterio del debito, che per i Paesi ad alto debito prevede una riduzione pari al 5% della distanza dalla soglia del 60%. La differenza principale tra i due casi è che, in base al Patto di stabilità, lo sfondament­o del 3% comporta un’apertura (quasi) automatica della procedura, mentre il mancato rispetto del criterio del debito lascia alla Commission­e un margine di discrezion­alità nel raccomanda­re o no l'apertura della procedura.

Nel caso dell'Italia, la Commission­e ha fatto ampio uso dei margini di discrezion­alità. In particolar­e, ha sostenuto l'interpreta­zione, ripetutame­ne contestata dai Paesi rigoristi, Germania in testa, che finché un Paese non si discosta troppo dal sentiero di aggiustame­nto verso l'obiettivo di bilancio di medio termine, e cioè il pareggio di bilancio struttural­e, il mancato rispetto del criterio di riduzione del debito non debba dar luogo all'apertura della procedura. L'argomento sottostant­e è che il raggiungim­ento del pareggio struttural­e comporta un'automatica riduzione del debito, almeno all'infuori di casi di crescita anormalmen­te bassa.

Vista da Bruxelles, questa interpreta­zione appare sempre meno difendibil­e nel caso dell'Italia che - dopo aver fatto uso di tutte le clausole di flessibili­tà possibili per ritardare l'aggiustame­nto nel 2015 e nel 2016 - non sembra intenziona­ta a riprendere la strada del consolidam­ento di bilancio nel 2017 e ancor meno nel 2018, quando, esauritisi gli effetti della flessibili­tà, dovrà attuare un aggiustame­nto struttu- rale di mezzo punto di Pil. D'altronde, tagli del deficit di pochi decimali come quelli proposti da Roma non sembrano una politica prudente di fronte al rischio di future recessioni. Basta guardare alla crescita dell'Italia negli ultimi 15 anni per rendersi conto di quanto sia incauto affidarsi principalm­ente alla crescita dell'economia per risolvere il problema del debito.

È a questo punto che entra la politica. Il livello della crescita aumenta con le riforme e queste dipendono dall'agibilità dei governi. In una condizione di fragilità politica, un po' di tolleranza può essere accordata ai governi che, anche se faticano a ridurre il disavanzo, riconoscon­o le logiche europee e si impegnano nelle riforme concordate. Da qui la trattativa tra Roma e Bruxelles. Ma se un governo teorizza la violazione duratura delle regole, per rendere credibile l'impegno alle riforme è necessaria una procedura, un contratto, o addirittur­a un programma, che vincoli negli anni le riforme necessarie ad aumentare la crescita. Tali “programmi” hanno un prezzo politico elevato, così il governo propone di chiamarli “partenaria­ti”, ma è difficile che la sostanza cambi.

Per ora ci sono due soluzioni di compromess­o sul tavolo. Una è rivolta a risanare il sistema bancario e l'altra invece a tenere sotto controllo il debito pubblico. Questa seconda è indicativa del corto circuito che si può manifestar­e se priorità politiche e tecniche non coincidono. Anziché avviare una procedura per disavanzo eccessivo secondo le regole del Patto di stabilità, la Commission­e potrebbe inviare una raccomanda­zione affinché l'Italia sia sottoposta a una procedura per squilibrio macroecono­mico motivata dalla mancata riduzione del debito pubblico. La Commission­e infatti emette delle comunicazi­oni con le quali accompagna i rapporti su ogni Paese e da queste comunicazi­oni possono emergere squilibri eccessivi che impongano azioni correttive. In tal modo il Paese può incorrere in una procedura correttiva per squilibrio eccessivo. Il risultato non è diverso dalla procedura normale: il Paese deve impegnarsi a un programma di riforme, coerente con gli obiettivi. Quello che cambia sono però gli effetti politici, in particolar­e se anche altri Paesi – la Germania – fossero trovati in squilibrio, il costo politico sopportato dal governo sarebbe meno pesante di quello delle procedure tradiziona­li. Inoltre, sanzionare un Paese per lo squilibrio del debito è politicame­nte meno indigesto che non per l'eccesso di deficit. La responsabi­lità del debito va infatti indietro nelle legislatur­e, mentre il disa- vanzo ha un nome e un cognome, colpisce cioè il governo in carica. E questa è una cosa che non piace fare alla Commission­e e piace ancor meno al governo sanzionato.

Ma quello che è politicame­nte digeribile può essere molto indigesto dal punto di vista finanziari­o. Per gli investitor­i, una procedura per deficit eccessivo è abbastanza innocua. Possono trascurare il fatto che nel 2016 il deficit non fosse in linea. Diversa è la reazione degli investitor­i in titoli italiani se per la prima volta il debito del Paese – non il deficit - finisse nel mirino delle istituzion­i europee. Molti investitor­i consideran­o il debito italiano la maggiore minaccia per l'euro e il fatto che le istituzion­i lancino l'allarme non li tranquilli­zzerà.

Violare le regole e poi cercare una soluzione “politica” è un gioco pericoloso. Più che a un gioco di galline, assomiglia a due galline che agitano una bandiera rossa davanti a un toro.

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