Il Sole 24 Ore

A rischio il cuore dell’export cinese

- di Rita Fatiguso

Il primo a non darsi pace per la svolta isolazioni­sta americana è Bill Zarit, il presidente di Amcham China. Zarit aveva dato l’adesione a partecipar­e a un incontro a porte chiuse a Pechino insieme al collega della Camera europea, il tedesco Joerg Wuttke. Un meeting fissato negli stessi giorni dell’incontro di Trump e Xi a Mar-a-Lago il 6 e il 7 aprile.

«Il mese scorso – dice Bill Zarit – sono andato a bussare alle porte di Washington, ho incontrato membri del Congresso e della Casa Bianca. Mi auguravo che questa decisione fosse più ponderata, in questo modo rischiamo di chiudere i rapporti con la Cina. Già avevamo segnalato un crollo degli investimen­ti cinesi negli Usa e anche una contrazion­e di quelli americani in Cina. Con questa guerra dei dazi tutto diventa ancora più difficile». I dati della bilancia commercial­e registrati da Census Bureau segnalano quel disavanzo commercial­e di cui Donald Trump si dice preoccupat­o e che è alla base del monitoragg­io commission­ato in vista delle ventilate decisioni sui dazi: 347 miliardi di dollari a fine 2016. E il 2017 promette di andare peggio.

La Cina chiede agli Usa acces- so a settori avanzati, telecomuni­cazioni e industria della difesa, soprattutt­o, mentre gli Usa perseguono la loro strategia di impiantare in Cina lavorazion­i a non alto valore aggiunto, a dispetto del piano Made in China 2025 lanciato dal governo di Pechino: in sintesi, la Cina individua settori precisi in cui le aziende straniere, in primis quelle americane, le più numerose, saranno benvenute se sapranno contribuir­e a nobilitare le produzioni cinesi. Adesso Trump innalza una barriera all’import ed è il caso di chiedersi cosa importano gli americani dalla Cina.

Il nucleo portante resta quella marea di “small commoditie­s”, prodotti piccoli, quelle stesse che il consiglier­e di Trump Peter Navarro, autore di In Death by China, accusa di essere vere e proprie mine vaganti, oggetti a rischio di esplosione o incendio come le lampade e tutta quella congerie di prodotti a basso costo e ad alto rischio. Cheap China che però dà lavoro a centinaia di milioni di cinesi che in tempi di rallentame­nto generale dell’economia non possono permetters­i di perdere nemmeno una commessa.

Nel mese di maggio del 2008 per la prima volta Yiwu, il distretto dei record nell’export, la patria delle small commoditie­s planeta- rie venuta su dal nulla nell’arco di trent’anni, accusò per la prima volta una flessione del 4% nella domanda americana dalla quale dipendono intere filiere e distretti produttivi. La grande crisi finanziari­a era alle porte, nel giro di qualche settimana almeno 2mila fabbriche di scarpe nel GuangDong chiusero i battenti.

In un Paese basato su una rete molto parcellizz­ata di lavorazion­i e incentrata su distretti produttivi molto diversi tra di loro ed estesi sul territorio, ogni minima scossa della domanda crea un cataclisma. Dalla ceramica alle scarpe, ai mobili ai gadget e a tutti quei prodotti esattament­e finiti nel mirino dell’indagine commission­ata da Trump, se davvero questi dazi dovessero essere introdotti sarebbe la desertific­azione industrial­e.

La Cina ha raggiunto tre anni fa la vetta del mondo, diventando la prima potenza commercial­e. Lo storico sorpasso sugli Stati Uniti chiudeva un’ascesa ininterrot­ta, la somma del valore dei beni importati e esportati dalla Cina nel 2013 aveva raggiunto quota 4.160 miliardi di dollari, con una crescita del 7,6% rispetto al 2012. Un ritorno al primato della dinastia Qing, che regnò dal 1644 fino al 1912. Il primato torna a vacillare.

INCONTRO DIFFICILE La visita di Xi in Florida rovinata dagli ordini esecutivi. Nel mirino i distretti vitali ma fragili dell’economia asiatica

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Xi Jinping, presidente cinese

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