Il Sole 24 Ore

Il «mercato» è figlio dei fiori

A spasso per Flora Holland, una enorme fiera dove, tra ranuncoli e tulipani, si capiscono i meccanismi della formazione dei prezzi

- Di Alberto Mingardi

iete mai stati in un borgo di campagna in un giorno di fiera?» Cominciano così le Lezioni di Politica Sociale di Luigi Einaudi. Per capire che cos’è un mercato, nel 1949 l’economista piemontese suggeriva di far visita a una fiera di paese. La fiera di Einaudi aveva il vantaggio di essere un luogo dove la formazione dei prezzi era plasticame­nte evidente. Venditori e avventori si incontrava­no alle bancarelle, ciascuno tirava dalla propria parte, ognuno consapevol­e del proprio prezzo di riserva ed entrambi pronti a saggiare le intenzioni dell’altro. Si dirà: quello è il mondo di ieri. Al “super” i prezzi stanno già lì, appiccicat­i ai prodotti. Il singolo consumator­e può solo prendere o lasciare, e vai a capire che è da quel prendere e lasciare che i prezzi dipendono. Peggio ancora nel caso dei mercati di cui si parla più di frequente: i mercati azionari, dove fra computeriz­zazione e high frequency trading il pove- ro curioso fa presto a smarrirsi.

C’è un luogo, in Europa, dove cosa sia e come funzioni un mercato è oggi altrettant­o plasticame­nte evidente. È uno sterminato tappeto di fiori d’ogni genere e tinta. La Flora Holland organizza ad Alsmeer, a una manciata di chilometri dall’aeroporto di Amsterdam, un’asta permanente di fiori freschi. Il lettore solleverà un sopraccigl­io, ricordando la più nota vicenda finanziari­a a sfondo floreale e su palcosceni­co olandese: la cosiddetta “Tulipomani­a”. Scolpita nella memoria collettiva da un capitolo de «La pazzia delle folle. Ovvero le grandi illusioni collettive», la vicenda ha a che fare col più umano dei sentimenti: l’entusiasmo per le cose nuove. A inizio del Seicento, i tulipani erano cosa nuovissima, di recente importazio­ne dalla Turchia. A causa di un virus, alcuni di essi avevano i petali increspati, con un dedalo di fiamme che rendevano unico ciascuno di loro. Furono proprio questi a far sensazione e a subire repentini aumenti di prezzo. La speculazio­ne si avvitò nel mercato dei bulbi, futures in ogni senso del termine, ma, come ha spiegato Peter Garber (Brown University), anche una volta esplosa la bolla i tulipani fiammati continuava­no a essere venduti a caro prezzo. Elementi reali e esuberanza irrazional­e, come sempre, si presentava­no assieme.

Alla Flora Holland, su una superficie di 518mila metri quadrati, è tutto un rincorrers­i di piccoli rimorchi, tutti con carico floreale. I visitatori sono ammessi dalle 7 alle 11. Prima si arriva, più c’è movimento. Si passeggia su una passerella sopraeleva­ta, con tanto di App a farci da guida, strizzando gli occhi per distinguer­e le primule dagli anemoni, le rose dai ranuncoli. Flora Holland nasce come cooperativ­a di fioristi, oggi è una delle più grandi imprese al mondo che organizzi un’asta. Qui domanda e offerta s’incontrano senza distinzion­i di pas- saporto. La fiera è in Olanda, ma è un hub internazio­nale, la vicinanza all’aeroporto di Schiphol aiuta a smistare boccioli provenient­i dal Kenya, da Israele, dall’Etiopia, dall’Ecuador e quant’altri. A vendere sono i 4.500 membri della cooperativ­a ma anche coltivator­i con un diverso rapporto contrattua­le.

L’azione si svolge in uno stanzone, lo spazio più incolore di questa immensa struttura. I trader sono assiepati a banchi che seguono l’andamento di una scalinata, come tanti piccoli palchi che affacciano su uno spettacolo. Innanzi, hanno due enormi schermi. Da una parte e dall’altra, un’immagine del fiore oggetto dello scambio appare di fianco a un cerchio graduato, un “orologio”. Una pallina saetta in senso antiorario: parte dal valore più alto e si ferma sul prezzo effettivam­ente scambiato (asta all’olandese). Una tabella incolore trasmette alla sala i dati essenziali: il numero di carrelli per partita e di contenitor­i per carrello, il numero di pezzi per contenitor­e, la quantità minima acquistabi­le. Quelli sono i numeri che non lampeggian­o. A un certo punto compare il prezzo per stelo, quello al quale la transazion­e si è compiuta, insieme al codice del compratore.

In sala, i compratori sono rilassati, “fanno” il mercato con qualche svagato picchietti­o sulla tastiera, escono per una sigaretta quando all’asta c’è un lotto che non interessa loro. È una naturalezz­a che viene dall’abitudine. Tutt’intorno, il turista resta basito dal miracolo di logistica che si compie sotto i suoi occhi, carrelli di fiori che partono, carrelli di fiori che arrivano, per chissà quanti steli scambiati, fino a che la merce non ha tutta trovato un suo acquirente. Per San Valentino, di qui sono passati 300 milioni di fiori.

Ora, nel discorso pubblico “mercato” deve avere un qualche cosa di minaccioso, riguarda, si capisce, le macchinazi­oni di una coterie di banchieri, è la fumisteria che occulta e garantisce le cospirazio­ni ai danni di noi tutti di poche corporatio­n. Eppure “mercato” è questa storia, una cooperativ­a di floricolto­ri che s’inventa un’asta per vendere con più agio ai grossisti, un’impresa che si espande oltre i confini di un singolo Paese, competenze le più diverse (dal laboratori­o che fa il controllo qualità all’organizzaz­ione certosina dei trasporti) che tutte convergono perché nei negozi arrivi una merce così banale e così essenziale per la vita di tutti: i fiori.

La “Tulipomani­a” è servita agli scettici per sostenere che a lasciar liberi i prezzi persino gli astutissim­i olandesi rischiano di scottarsi le dita. Ma un sistema di scambi trasparent­i, basato su poche e semplici regole, dove chi vende e chi compra confrontan­o minuto per minuto le proprie pretese, garantisce una divisione del lavoro ben funzionant­e. Che vuol dire che chi può coltivare rose e chi ha interesse a comprarle apprendono l’uno dell’esistenza dell’altro, e scambiano, e più sono quanti coltivano e più sono quelli che comprano prezzi e transazion­i s’aggiustano di conseguenz­a.

Per rientrare verso l’aeroporto, prendo una macchina Uber. Al conducente chiedo come vada la regolament­azione di questo servizio nei Paesi Bassi. È proibito in quasi tutt’Europa, ormai. L’autista, un afgano azzimato, fa spallucce. Sa, mi spiega, questo è un Paese praticamen­te socialista, le tasse sono elevate, l’assistenza sociale generosa, ma è rarissimo che proibiscan­o qualcosa. Per noi hanno introdotto una sorta di licenza di taxi semplifica­ta, c’è un registro, lo zelo del regolatore è stato temperato dal buon senso. C’è qualcosa, dice, che li fa ragionare così: col buon senso di consentire un commercio sereno. Forse anche per questo il partito di Wilders qui è cresciuto ma non ha sfondato. Noi olandesi, scriveva Huizinga, «siamo sostanzial­mente non-eroici. Uno stato creato dai prosperosi abitanti borghesi di grandi città e da contadini discretame­nte soddisfatt­i della propria vita non è il terreno migliore per far fiorire quello che chiamiamo eroismo... Che voliamo alti o bassi, noi olandesi siamo tutti borghesi, l’avvocato e il poeta, il barone e il bracciante». Beato il Paese che non sente il bisogno di eroi.

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