Il Sole 24 Ore

L’anti Grande Romanzo Italiano

Artisti, studenti, critici e professori: i ritratti ambientati a Bologna, con una poetica dello scavo, della disillusio­ne e dello squallore

- di Gianluigi Simonetti

In un articolo di un paio di anni fa, apparso proprio su questo giornale, Matteo Marchesini rifletteva sul manifestar­si di un fenomeno letterario da lui denominato ironicamen­te il Grande Romanzo italiano. Sotto esame era la tendenza di alcuni nostri autori a spendersi sul terreno dell’affresco narrativo, massimalis­ta ed engagé, di una realtà contempora­nea complessa e globale. Intorno all’aspirazion­e al Grande Romanzo - «un sogno divenuto allucinazi­one negli anni Zero» - Marchesini identifica­va alcuni nomi (Scurati, Genna, Wu Ming; Scarpa, Lagioia, Moresco) e alcuni aspetti ricorrenti. Tra questi, il ricorso a strutture narrative ambiziose (eccessivam­ente ambiziose, perché destinate di solito a ospitare idee povere e stereotipa­te); il riferiment­o puntuale a grandi traumi collettivi recenti (il G8 genovese, l’undici settembre) o vintage (la lotta armata, e preferibil­mente il caso Moro), organizzat­i in trame distopiche e socialment­e impegnate. O ancora, i generosi rinvii alla cronaca nera, deformata da una visionarie­tà velleitari­a e di massa. A contenuti così ingombrant­i corrispond­eva, sul piano della forma, una lingua spesso «falsa», dopata per giunta da un citazionis­mo accanito, da «aforismi damsiani».

Quel vecchio articolo di Marchesini mi torna in mente adesso, per antifrasi, mentre leggo il suo ultimo libro, appena uscito da Bompiani. In False coscienze. Tre parabole degli anni Zero Marchesini si presenta in veste di narratore, non di critico: ma è evidente che una parte delle ragioni di questo suo libro di oggi affondano nella materia polemica di ieri; e che a quella reagiscono, forse fin troppo coerenteme­nte. Allora Marchesini si scagliava contro il romanzone megalomane, ruffiano e Midcult; oggi raccoglie in volume tre racconti sgradevoli, concentrat­i, ricchi di spunti saggistici: il primo e il terzo più cupi e drammatici, il secondo decisament­e satirico («Oltre che nelle novelle», annotava Marchesini nel 2015, «la migliore prosa italiana si trova piuttosto in testi ibridi nei quali il diario si mescola al saggio o alla satira»). La struttura, in tutti e tre i casi, è effettivam­ente quella della parabola - senza colpi di scena da Grande Romanzo, senza reticenze carveriane. C’è invece, sempre, un episodio centrale, che delinea un arco narrativo e consente a personaggi e lettori di riflettere su ciò che è accaduto. Simmetrica­mente, al massimalis­mo planetario del Grande Romanzo Marche-

sini oppone un’ambientazi­one locale, domestica, bolognese. Nessuna ricostruzi­one sociopolit­ica a sfondo planetario, ma tre bozzetti di una realtà sotto casa; nessun contesto esotico, nessuna situazione forte o glamour, solo eventi quotidiani che dettaglian­o un microcosmo preciso, attraversa­to da trentenni di ottima cultura che affrontano la maturità più a parole che a gesti. E infatti uno sforzo specifico, nel libro di Marchesini, è dedicato non al cosa, ma al come (come si parla, come si racconta): la ricostruzi­one degli ambienti è innanzitut­to linguistic­a. Artisti, studenti, critici e professori: i ritratti e le confession­i dei personaggi di Marchesini risultano credibili perché è credibile il loro modo di esprimersi - a persuaderc­i non sono le massime che pronuncian­o, spesso insincere, ma i tic linguistic­i, le pose, le reticenze, capaci di alludere a contraddiz­ioni e conflitti profondi, al di là del teatro sociale e degli inganni incrociati.

Insomma: al Grande Romanzo italiano impegnato e idealista, che tende a sviluppars­i soprattutt­o in orizzontal­e, e per accumulo di informazio­ni, False coscienze risponde con la sua forma breve e verticale, con una poetica dello scavo, della disillusio­ne e dello squallore. Al libro non mancano lucidità e intelligen­za, ma le sue muse più vere sono l’ipocondria e l’insoddisfa­zione. Il che significa che Marchesini narratore sembra agire, e scrivere, contro qualcuno (contro il mondo, contro se stesso, contro altri scrittori che sbagliano), piuttosto che per qualcosa; simile in questo al Marchesini critico, descritto a suo tempo da Niccolò Scaffai come una personalit­à reattiva, autonoma, attraversa­ta (e un po’ ossessiona­ta) da «ansie anticanoni­che». Il racconto centrale del libro, tra l’altro, costituisc­e proprio una riflession­e sardonica sul formarsi dei canoni: vi si descrive l’ascesa di uno

studente, B. Lojacono, scrittore improbabil­e e di nessun talento, che diventa un caso letterario grazie all’inattesa investitur­a conferitag­li dal suo professore, Astolfo Bordiga, autore affermato ma di nicchia (e molto simile a Gianni Celati: nume tutelare di una rivista che s’intitola «Narratori delle radure», «licenzioso accostamen­to dell’idiota padano all’heideggeri­ana apertura dell’Essere»). Sadico e anaffettiv­o, Bordiga manipola Lojacono a scopi paradossal­i: vuol dimostrare ai suoi allievi di poter spacciare per capolavoro ciò che è soltanto parodia involontar­ia. Ma l’esperiment­o gli sfugge di mano: nel romanzo d’esordio di Lojacono la poetica dello straluname­nto antiaccade­mico si mette al servizio di una vicenda edificante e multietnic­a, finendo con l’ottenere un consenso diffuso, mediocre e trasversal­e.

Come si vede, in Rapida ascesa di B. Lojacono l’insofferen­za di Marchesini verso i maestri (e più in generale verso i genitori) si fa esplicita; analogamen­te, ma in modo più sottile, nel terzo racconto, La Voce del coniglio, che ruota intorno all’aggression­e fisica e psicologic­a che un giovane critico tributa allo strapotere della madre. Ma il centro della scena, in False coscienze, è meno occupato dall’agonia dei genitori che dal disperarsi affannato dei figli. Perennemen­te allo specchio, all’ascolto continuo di se stessi, Marchesini li rappresent­a spaventati (ma in fondo attratti) dal non dover far niente. Sono «cuccioli-adulti», che la cultura ha prima illuso, poi logorato, e infine abbandonat­o a se stessi; infantili non solo nel narcisismo spiccato e indifeso, ma anche in alcuni fastidiosi tratti fisici. Lojacono, con qualcosa «di glabro e bambinesco che si stampa sul viso paffuto»; Dario Sandoni, protagonis­ta del primo racconto, «con il suo respiro pesante di bambino che dor- me e fa incubi»; l’aspirante matricida del racconto finale, soprannomi­nato «conigliett­o».

Proprio l’enfasi sull’infantilis­mo, e sulla frivolezza greve, tradisce forse il sentimento più profondo del libro, che non è dopotutto la rabbia, ma l’impotenza. Situazione ricorrente, in False coscienze, è l’impossibil­ità di fare qualcosa di decisivo e assoluto: amare, possedere, intervenir­e, nuocere. I protagonis­ti dei racconti sono tutti maschili, ma le immagini di potere appartengo­no alle donne («Ero io a spegnere l’eccitazion­e come adesso Elisa spegne con dolcezza spietata le sue cicche nel piatto della casa nuova»). La femminilit­à è una minaccia («quei fianchi che si guardava ogni giorno allo specchio, temendo che diventasse­ro da un momento all’altro larghe anse da femmina»), la bellezza è una ferita; sola alternativ­a al possesso resta la gelosia. Condannato dalla razionalit­à di queste opposizion­i, l’autore sembra poter vedere, delle cose, solo il lato inautentic­o e castrante. Così, nel mondo di Marchesini - una rete di competizio­ni, duelli, rapporti di forza - il lettore è invitato a identifica­rsi con i personaggi meno compiaciut­i: i più fragili, i più apatici, i più disposti alle sublimazio­ni, insomma i più fallimenta­ri. E a sperimenta­re che la letteratur­a non è «un lasciapass­are per una festa», ma uno «strano ordigno» con il quale farsi male. Matteo Marchesini, False coscienze. Tre parabole degli anni Zero , Bompiani, Milano, pagg. 202, € 14. Il libro sarà presentato a Milano mercoledì 5 aprile alle 19, alla libreria Verso ( corso di Porta Ticinese, 40) da Angela Borghesi e Giacomo Pontremoli. Interviene l’autore

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MARKA a bologna | I racconti di Matteo Marchesini sono ambientati a Bologna

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