L’anti Grande Romanzo Italiano
Artisti, studenti, critici e professori: i ritratti ambientati a Bologna, con una poetica dello scavo, della disillusione e dello squallore
In un articolo di un paio di anni fa, apparso proprio su questo giornale, Matteo Marchesini rifletteva sul manifestarsi di un fenomeno letterario da lui denominato ironicamente il Grande Romanzo italiano. Sotto esame era la tendenza di alcuni nostri autori a spendersi sul terreno dell’affresco narrativo, massimalista ed engagé, di una realtà contemporanea complessa e globale. Intorno all’aspirazione al Grande Romanzo - «un sogno divenuto allucinazione negli anni Zero» - Marchesini identificava alcuni nomi (Scurati, Genna, Wu Ming; Scarpa, Lagioia, Moresco) e alcuni aspetti ricorrenti. Tra questi, il ricorso a strutture narrative ambiziose (eccessivamente ambiziose, perché destinate di solito a ospitare idee povere e stereotipate); il riferimento puntuale a grandi traumi collettivi recenti (il G8 genovese, l’undici settembre) o vintage (la lotta armata, e preferibilmente il caso Moro), organizzati in trame distopiche e socialmente impegnate. O ancora, i generosi rinvii alla cronaca nera, deformata da una visionarietà velleitaria e di massa. A contenuti così ingombranti corrispondeva, sul piano della forma, una lingua spesso «falsa», dopata per giunta da un citazionismo accanito, da «aforismi damsiani».
Quel vecchio articolo di Marchesini mi torna in mente adesso, per antifrasi, mentre leggo il suo ultimo libro, appena uscito da Bompiani. In False coscienze. Tre parabole degli anni Zero Marchesini si presenta in veste di narratore, non di critico: ma è evidente che una parte delle ragioni di questo suo libro di oggi affondano nella materia polemica di ieri; e che a quella reagiscono, forse fin troppo coerentemente. Allora Marchesini si scagliava contro il romanzone megalomane, ruffiano e Midcult; oggi raccoglie in volume tre racconti sgradevoli, concentrati, ricchi di spunti saggistici: il primo e il terzo più cupi e drammatici, il secondo decisamente satirico («Oltre che nelle novelle», annotava Marchesini nel 2015, «la migliore prosa italiana si trova piuttosto in testi ibridi nei quali il diario si mescola al saggio o alla satira»). La struttura, in tutti e tre i casi, è effettivamente quella della parabola - senza colpi di scena da Grande Romanzo, senza reticenze carveriane. C’è invece, sempre, un episodio centrale, che delinea un arco narrativo e consente a personaggi e lettori di riflettere su ciò che è accaduto. Simmetricamente, al massimalismo planetario del Grande Romanzo Marche-
sini oppone un’ambientazione locale, domestica, bolognese. Nessuna ricostruzione sociopolitica a sfondo planetario, ma tre bozzetti di una realtà sotto casa; nessun contesto esotico, nessuna situazione forte o glamour, solo eventi quotidiani che dettagliano un microcosmo preciso, attraversato da trentenni di ottima cultura che affrontano la maturità più a parole che a gesti. E infatti uno sforzo specifico, nel libro di Marchesini, è dedicato non al cosa, ma al come (come si parla, come si racconta): la ricostruzione degli ambienti è innanzitutto linguistica. Artisti, studenti, critici e professori: i ritratti e le confessioni dei personaggi di Marchesini risultano credibili perché è credibile il loro modo di esprimersi - a persuaderci non sono le massime che pronunciano, spesso insincere, ma i tic linguistici, le pose, le reticenze, capaci di alludere a contraddizioni e conflitti profondi, al di là del teatro sociale e degli inganni incrociati.
Insomma: al Grande Romanzo italiano impegnato e idealista, che tende a svilupparsi soprattutto in orizzontale, e per accumulo di informazioni, False coscienze risponde con la sua forma breve e verticale, con una poetica dello scavo, della disillusione e dello squallore. Al libro non mancano lucidità e intelligenza, ma le sue muse più vere sono l’ipocondria e l’insoddisfazione. Il che significa che Marchesini narratore sembra agire, e scrivere, contro qualcuno (contro il mondo, contro se stesso, contro altri scrittori che sbagliano), piuttosto che per qualcosa; simile in questo al Marchesini critico, descritto a suo tempo da Niccolò Scaffai come una personalità reattiva, autonoma, attraversata (e un po’ ossessionata) da «ansie anticanoniche». Il racconto centrale del libro, tra l’altro, costituisce proprio una riflessione sardonica sul formarsi dei canoni: vi si descrive l’ascesa di uno
studente, B. Lojacono, scrittore improbabile e di nessun talento, che diventa un caso letterario grazie all’inattesa investitura conferitagli dal suo professore, Astolfo Bordiga, autore affermato ma di nicchia (e molto simile a Gianni Celati: nume tutelare di una rivista che s’intitola «Narratori delle radure», «licenzioso accostamento dell’idiota padano all’heideggeriana apertura dell’Essere»). Sadico e anaffettivo, Bordiga manipola Lojacono a scopi paradossali: vuol dimostrare ai suoi allievi di poter spacciare per capolavoro ciò che è soltanto parodia involontaria. Ma l’esperimento gli sfugge di mano: nel romanzo d’esordio di Lojacono la poetica dello stralunamento antiaccademico si mette al servizio di una vicenda edificante e multietnica, finendo con l’ottenere un consenso diffuso, mediocre e trasversale.
Come si vede, in Rapida ascesa di B. Lojacono l’insofferenza di Marchesini verso i maestri (e più in generale verso i genitori) si fa esplicita; analogamente, ma in modo più sottile, nel terzo racconto, La Voce del coniglio, che ruota intorno all’aggressione fisica e psicologica che un giovane critico tributa allo strapotere della madre. Ma il centro della scena, in False coscienze, è meno occupato dall’agonia dei genitori che dal disperarsi affannato dei figli. Perennemente allo specchio, all’ascolto continuo di se stessi, Marchesini li rappresenta spaventati (ma in fondo attratti) dal non dover far niente. Sono «cuccioli-adulti», che la cultura ha prima illuso, poi logorato, e infine abbandonato a se stessi; infantili non solo nel narcisismo spiccato e indifeso, ma anche in alcuni fastidiosi tratti fisici. Lojacono, con qualcosa «di glabro e bambinesco che si stampa sul viso paffuto»; Dario Sandoni, protagonista del primo racconto, «con il suo respiro pesante di bambino che dor- me e fa incubi»; l’aspirante matricida del racconto finale, soprannominato «coniglietto».
Proprio l’enfasi sull’infantilismo, e sulla frivolezza greve, tradisce forse il sentimento più profondo del libro, che non è dopotutto la rabbia, ma l’impotenza. Situazione ricorrente, in False coscienze, è l’impossibilità di fare qualcosa di decisivo e assoluto: amare, possedere, intervenire, nuocere. I protagonisti dei racconti sono tutti maschili, ma le immagini di potere appartengono alle donne («Ero io a spegnere l’eccitazione come adesso Elisa spegne con dolcezza spietata le sue cicche nel piatto della casa nuova»). La femminilità è una minaccia («quei fianchi che si guardava ogni giorno allo specchio, temendo che diventassero da un momento all’altro larghe anse da femmina»), la bellezza è una ferita; sola alternativa al possesso resta la gelosia. Condannato dalla razionalità di queste opposizioni, l’autore sembra poter vedere, delle cose, solo il lato inautentico e castrante. Così, nel mondo di Marchesini - una rete di competizioni, duelli, rapporti di forza - il lettore è invitato a identificarsi con i personaggi meno compiaciuti: i più fragili, i più apatici, i più disposti alle sublimazioni, insomma i più fallimentari. E a sperimentare che la letteratura non è «un lasciapassare per una festa», ma uno «strano ordigno» con il quale farsi male. Matteo Marchesini, False coscienze. Tre parabole degli anni Zero , Bompiani, Milano, pagg. 202, € 14. Il libro sarà presentato a Milano mercoledì 5 aprile alle 19, alla libreria Verso ( corso di Porta Ticinese, 40) da Angela Borghesi e Giacomo Pontremoli. Interviene l’autore