Il Sole 24 Ore

Amato da 2000 anni

Si festeggia in tutto il mondo il poeta estremo e trasgressi­vo delle passioni erotiche e dei rimedi contro l’ amore

- Di Alessandro Schiesaro

Anessun autore antico, con la parziale eccezione di Omero, è toccata in sorte la continua vitalità che caratteriz­za il rapporto dei moderni, in tutte le epoche, con Ovidio. In primo luogo l’Ovidio delle Metamorfos­i, certo, ma anche quello dell’esilio e in misura minore quello del trittico dedicato all’eros, Amori, Arte di amare e Rimedi contro l’amore. Vitalità che si traduce in stimolo costante a considerar­e il testo di Ovidio come ispirazion­e e sfida della pratica artistica, dai grandi pittori del Rinascimen­to alle avanguardi­e del XXI secolo. A questa conversazi­one partecipan­o prosa e poesia, pittura e installazi­oni, film, danza; e un ruolo chiave è quello delle traduzioni d’artista, che a varie riprese hanno proposto un Ovidio contempora­neo alla riscoperta di un pubblico non necessaria­mente interessat­o all’antico. Gli ultimi trent’anni si caratteriz­zano proprio per l’intreccio tra un’incisiva rivalutazi­one critica di Ovidio da parte degli addetti ai lavori e un’intensa opera di esplorazio­ne e trasfigura­zione da parte di poeti e artisti. Amatissimo dai poeti, Ovidio tarda ad incontrare, in epoca romantica e postromant­ica, il favore convinto degli studiosi. Bisogna attendere gli Anni Ottanta perché i limiti e i difetti che tradiziona­lmente gli vengono imputati si trasformin­o in altrettant­i punti di forza: Ovidio non facile versificat­ore, ma abilissimo nell’insinuare all’interno di un dettato volutament­e molto sciolto pieghe profonde di senso e sovrasensi; insuperabi­le nel plasmare in modo originale i modelli del mito greco e romano per distillarn­e ulteriori complessit­à psicologic­he, soprattutt­o perverse; audace nel confondere la gerarchia tra la realtà e l’illusione dell’arte.

Un momento decisivo nella trasformaz­ione di Ovidio in autore-simbolo del nuovo millennio è l’idea di due poeti, Michael Hofmann e James Lasdun, che nel 1994 propongono a un gruppo di colleghi di tradurre passi scelti delle Metamorfos­i. Molti accettano di slancio, inclusi i sommi Seamus Heaney e Ted Hughes. L’immediato successo dell’antologia coglie tutti di sorpresa. Hughes si

entusiasma. Lui, poeta del mito racchiuso nelle forme della natura, degli animali che testimonia­no di una vitalità arcaica e misteriosa, il seguace della Dea Bianca primigenia, trova nei versi di Ovidio una potenza espressiva e una concentraz­ione di senso che lo scuotono nel profondo. Dopo l’esperiment­o iniziale traduce ampie sezioni del poema, selezionan­do le storie che meglio risuonano con la sua concezione poetica e la sua esperienza di vita, disponendo­le in una sequenza che mentre altera la sagace architettu­ra dell’originale mette in luce nuove simmetrie, altri legami non meno suggestivi. Lo straordina­rio favore che esattament­e vent’anni fa, nel 1997, accoglie le Storie tratte da Ovidio, le rilancia in tutto il mondo, anche a teatro (è un regista italiano, Alessandro Fabrizi, a trarne una serie di spettacoli e workshop che hanno fatto scuola). Hughes, con il fiuto del poeta, coglie il tratto distintivo delle Metamorfos­i: non l’abilità narrativa, non la fantasia inesauribi­le, ma il trasporto per le passioni estreme, irrefrenab­ili, distruttiv­e. Ovidio come Shakespear­e, il poeta più amato. Il fervore del rapporto continua fino alla morte ormai prossima, e in direzioni ancora una volta impreviste. Rompendo un silenzio trentennal­e, Hughes decide di raccontare in poesia, nelle Lettere di compleanno pubblicate in extremis nel 1998, il suo rapporto con Sylvia Plath. È ovidiana l’idea dell’epistolari­o poetico suscitato dall’assenza, o meglio da una presenza assente. Come Ovidio in esilio ai confini del mondo dialoga con una Roma lontana e irrecupera­bile (ma sono molte le istanze di questa ossessione anche nelle Metamorfos­i), Hughes riversa in queste sue Tristezze l’angoscia di una perdita che ha marcato in modo indelebile la sua esistenza e la sua poesia, nel detto e soprattutt­o nel non detto.

Quest’anno, il bimillenar­io della morte di Ovidio nel remoto esilio di Tomi viene celebrato in tutto il mondo, da Sulmona sua città natale, a Roma a Shangai. Per l’occasione viene riproposto un brillante saggio di Gianpiero Rosati che ha aperto a nuove prospettiv­e il percorso critico degli ultimi decenni. Pubblicato per la prima volta nel 1983, Narciso e Pigmalione. Illusione e spettacolo nelle Metamorfos­i di Ovidio rivaluta due aspetti centrali del poema, la sistematic­a tendenza autorifles­siva e la dialettica a tratti aspra, sempre tesa, tra finzione e realtà. Ovidio racconta un Narciso doppio del poeta, incantato nell’ammirazion­e della propria bellezza, destinato alla morte quanto la tardiva percezione dell’inganno lo condanna senza scampo. Ma un Narciso che proprio in quanto poeta è consapevol­e fin dall’inizio che le sue parole sono illusione, perché, spiega Ovidio, la natura nella sua perfezione imita l’arte senza darlo a vedere. Narciso, quindi, come simbolo di una poetica che al fascino del reale sostituisc­e quello dell’autocoscie­nza, che innalza la dimensione metaletter­aria a paradigma della creazione artistica. Un Ovidio “prestigiat­ore” (la critica arcigna che gli muove Quintilian­o), ma in positivo, in quanto maestro di riflessi e incastri, allusioni e moltiplica­zioni di senso, torsioni linguistic­he che i ncarnano plasticame­nte l’inesauribi­le malleabili­tà delle passioni. Pigmalione si muove in una direzione all’apparenza opposta, in realtà identica. La perfezione dell’arte viene traslata in realtà per ribadire che è la realtà della natura a imitare l’arte, non viceversa. La sua donna di avorio è più attraente ogni donna mortale e la dea dell’amore, Afrodite, non disdegna di renderla viva, in una metamorfos­i al contrario che trasforma la materia inerte in essere vivente. È tipico di Ovidio insinuare in una storia che si lascia leggere come rivendicaz­ione ambiziosa del potere dell’artista, coronata da un lieto fine, implicazio­ni perturbant­i. Il feticismo di Pigmalione scaturisce dal suo disgusto per i difetti «che la natura ha attribuito al carattere delle donne»; e la sua unione con la statua genera Pafo da cui discende Cinira, insieme alla figlia Mirra archetipo di relazioni incestuose. Non stupisce che al terzo millennio la rivalutazi­one della potenza affabulato­ria e trasgressi­va di Ovidio venga affidata dal secolo di Kafka e Bulgakov, di Freud e Lacan.

Ovidio 2017. Prospettiv­e per il terzo millennio. Convegno internazio­nale, Sulmona 3-6 aprile 2017

Gianpiero Rosati, Narciso e Pigmalione. Illusione e spettacolo nelle Metamorfos­i di Ovidio, Edizioni della Normale, Pisa, pagg. 182, € 25

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imitato | La statua di Publio Ovidio Nasone

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