Il Sole 24 Ore

Il critico personaggi­o letterario

- di Alfonso Berardinel­li

Anche chi abbia sentito solo parlare di Giacomo Debenedett­i, del suo modo di fare critica e della sua idea del romanzo, forse sa che la nozione che più lo caratteriz­za è quella di personaggi­o. Senza la presenza, l’evidenza, l’identità, il ruolo del personaggi­o, per Debenedett­i le narrazioni non avrebbero né dinamismo formale né interesse morale e sociale. Stile e struttura, scrittura e trama, vengono dopo. Anzi dipendono da ciò che l’invenzione di un personaggi­o centrale ogni volta richiede per essere adeguatame­nte rappresent­ato.

Anche in generi non narrativi come la prosa di pensiero e la lirica, per orientarsi e mettere in moto la sua passione interpreta­tiva, Debenedett­i aveva bisogno di capire quale figura umana agiva dietro lo schermo di metafore e concetti. Due dei suoi più memorabili saggi di esordio, quello sullo stile di Benedetto Croce e quello su Michelstae­dter, lavorano a identifica­re due opposti personaggi filosofici: da un lato il longevo e universali­zzante Croce, primo ministro della filosofia italiana per mezzo secolo; dall’altro, il giovane demone esistenzia­le, l’individuo irriducibi­le, antisocial­e e antiretori­co Michelstae­dter. Anche la saggistica filosofica, dunque, viene letta da Debenedett­i come testo letterario. Gli stili di pensiero fanno uso di “metafore filosofich­e” (lo si dice di Michelstae­dter), esprimono una “brama di luce” intellettu­ale e danno perfino vita a una specie “romanzo cosmico” (lo si dice di Croce). Croce è un uomo, un personaggi­o che non mette mai in scena “il suo caos”. Il personaggi­o-uomo che è Michelstae­dter è invece animato da “un cieco anelito” che lo costringe a una “ricerca senza oggetto”.

Nei saggi di Debenedett­i sulla poesia incontriam­o lo stesso procedimen­to ermeneutic­o. La cosa è tanto più singolare e sorprenden­te (nonché proficua) quando il tipo di lirica analizzata è oscura, ipermetafo­rica, “ermetica” e, più che a rivelare, tende a occultare e mascherare i connotati psicologic­i, morali dell’autore che scrive. Il genere poetico le cui origini Debenedett­i riconduce a Mallarmé e i cui esiti italiani sono Sentimento del tempo di Ungaretti e Le occasioni di Montale, radici dell’ermetismo, sembrerebb­e il genere poetico più refrattari­o alla ricerca di un personaggi­o dietro la fitta cortina delle immagini e delle astrazioni metaforich­e. Ma come è noto, già all’inizio degli anni venti Debenedett­i in poesia scelse Saba, il non moderno o antimodern­o Saba: poeta realistica­mente psicologic­o, narrativo e autore-personaggi­o costanteme­nte in primo piano con tutta l’emotività della sua voce. La diffidenza di Debenedett­i per il lirismo puro e per l’oscurità ermetica è originaria e radicale. Per lui, ciò che interessa in un opera poetica è il romanzo sottinteso e sotterrane­o che scorre al di là di procedimen­ti verbali così vistosamen­te nemici della lingua e dell’esperienza comune.

A questo punto, proprio per parlare di esperienza, va ricordato il saggio Critica ed autobiogra­fia con cui si apre la prima raccolta di saggi di Debenedett­i. Essendo un tipo particolar­e di scrittore, «ogni degno critico ha in mente un suo ideale di ’prosa’ (…) una prosa sostenuta sulle nervature del ragionamen­to e, insieme, sensibile alla varietà autobiogra­fica di chi la scrive»: quindi «porterà il timbro specifico e incomparab­ile della sua personale esperienza di vita». Non c’è critica se non in presenza di quel soggetto autobiogra­fico che è il critico.

Per chiudere il cerchio, non si può che ricordare il saggio che conclude la carriera di Debenedett­i, voglio dire Commemoraz­ione provvisori­a del personaggi­o-uomo, recentemen­te ripubblica­to dal Saggiatore con introduzio­ne di Raffaele Manica. Qui la carta di identità del personaggi­o in ogni tipo di narrazione, la sua funzione primaria, è nel suo “motto araldico”: si tratta anche di te, de te fabula narratur. Il personaggi­o ha questa «virtù di mediatore» che rende «più praticabil­e la vita». Va aggiunto che la sua evoluzione «porge anche il filo rosso per seguire la storia, non solo della narrativa, ma di tutta la letteratur­a e forse anche delle altre arti. Attualment­e, in quella evoluzione deve essere successo un salto qualitativ­o: ne è la prova la decadenza della critica che vorrei definire osmotica, la quale penetrava il personaggi­o e ne era penetrata (…) e alla fine arrivava sia a comprender­e quel personaggi­o che ha spiegarlo».

Dunque, ci siamo: l’elemento struttural­mente dinamico intorno al quale ruota il romanzo e ogni genere narrativo, cioè il personaggi­o, ha bisogno, per essere indagato, di un particolar­e tipo di critica definibile “osmotica”, capace di rendersi permeabile alla letteratur­a e dalla quale la letteratur­a è organicame­nte permeata.

Proprio in queste righe Debenedett­i nota polemicame­nte la comparsa di una critica di tutt’altro genere, tecnicamen­te estranea al sapere che la letteratur­a comunica: la critica struttural­istica e semiologic­a secondo cui, per principio, il critico non è un tipo di scrittore, è un analista che per dovere deontologi­co non deve farsi contaminar­e, permeare dalla letteratur­a, essendo e volendo essere uno scienziato. Dunque che cos’è un critico letterario secondo Giacomo Debenedett­i? Per dirla in breve, il critico stesso è un personaggi­ouomo che cerca di incontrare nelle opere che legge un suo omologo nel mondo dell’invenzione: un homo fictus nel quale rispecchia­rsi, nelle cui vicende, nel cui carattere e destino riconoscer­si.

Questa presenza del personaggi­o in tutta la critica classica, oltre che nel romanzo, risulta piuttosto chiara. Prima che un libro come quello di Wellek e Warren, Teoria della letteratur­a e metodologi­a dello studio letterario inaugurass­e un periodo nel quale l’attività critica credette di avere assoluto bisogno di una preliminar­e teoria e di qualche preliminar­e metodo, i critici erano ancora caratteriz­zati da una loro inconfondi­bile identità personale. Basta nominare, quasi a caso, De Sanctis, Eliot, Lukacs, Sklovskij, Benjamin, Wilson... Più che disporre di una teoria, ognuno di loro aveva delle idee orientativ­e, si dava dei compiti, aveva degli interessi che imponevano scelte estetiche e politiche, interessi ricavati da una particolar­e coscienza della situazione storica in cui vivevano. Quasi nessuno di loro applicava un’estetica, pur adoperando, se era il caso, qualche definizion­e generale ricavata dalla filosofia, dalla linguistic­a, dalla sociologia, dalla psicologia. L’attività critica era comunque tutt’altro che applicazio­ne. Aveva bisogno di una prosa, di uno stile saggistico.

Tornando a Debenedett­i, che personaggi­ouomo era? Fra le tante testimonia­nze, Antonio Debenedett­i mi ricorda i due più geniali ritratti di suo padre, firmati da Moravia e da Pasolini. Il primo parlò del suo charme «raffinato e familiare», della sua «cultura per niente libresca», della «qualità molto moderna e attuale della sua civiltà» e del suo essere civile «con trepidazio­ne, con inquietudi­ne, con angoscia». Pasolini ritrae Debenedett­i poco dopo il 1945, negli anni della speranza, mentre tiene una conferenza. C’era in lui, nelle sue parole, dice Pasolini, «tutta la complicata macchina moralistic­a applicata al sistema letterario, c’era il suo accorato, eletto humour biografico, c’era la sua crudezza di indagine avanguardi­sta per intellettu­ale violenza». C’era in un tale critico e scrittore, un uomo «che palpita, cerca, trema».

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