Il critico personaggio letterario
Anche chi abbia sentito solo parlare di Giacomo Debenedetti, del suo modo di fare critica e della sua idea del romanzo, forse sa che la nozione che più lo caratterizza è quella di personaggio. Senza la presenza, l’evidenza, l’identità, il ruolo del personaggio, per Debenedetti le narrazioni non avrebbero né dinamismo formale né interesse morale e sociale. Stile e struttura, scrittura e trama, vengono dopo. Anzi dipendono da ciò che l’invenzione di un personaggio centrale ogni volta richiede per essere adeguatamente rappresentato.
Anche in generi non narrativi come la prosa di pensiero e la lirica, per orientarsi e mettere in moto la sua passione interpretativa, Debenedetti aveva bisogno di capire quale figura umana agiva dietro lo schermo di metafore e concetti. Due dei suoi più memorabili saggi di esordio, quello sullo stile di Benedetto Croce e quello su Michelstaedter, lavorano a identificare due opposti personaggi filosofici: da un lato il longevo e universalizzante Croce, primo ministro della filosofia italiana per mezzo secolo; dall’altro, il giovane demone esistenziale, l’individuo irriducibile, antisociale e antiretorico Michelstaedter. Anche la saggistica filosofica, dunque, viene letta da Debenedetti come testo letterario. Gli stili di pensiero fanno uso di “metafore filosofiche” (lo si dice di Michelstaedter), esprimono una “brama di luce” intellettuale e danno perfino vita a una specie “romanzo cosmico” (lo si dice di Croce). Croce è un uomo, un personaggio che non mette mai in scena “il suo caos”. Il personaggio-uomo che è Michelstaedter è invece animato da “un cieco anelito” che lo costringe a una “ricerca senza oggetto”.
Nei saggi di Debenedetti sulla poesia incontriamo lo stesso procedimento ermeneutico. La cosa è tanto più singolare e sorprendente (nonché proficua) quando il tipo di lirica analizzata è oscura, ipermetaforica, “ermetica” e, più che a rivelare, tende a occultare e mascherare i connotati psicologici, morali dell’autore che scrive. Il genere poetico le cui origini Debenedetti riconduce a Mallarmé e i cui esiti italiani sono Sentimento del tempo di Ungaretti e Le occasioni di Montale, radici dell’ermetismo, sembrerebbe il genere poetico più refrattario alla ricerca di un personaggio dietro la fitta cortina delle immagini e delle astrazioni metaforiche. Ma come è noto, già all’inizio degli anni venti Debenedetti in poesia scelse Saba, il non moderno o antimoderno Saba: poeta realisticamente psicologico, narrativo e autore-personaggio costantemente in primo piano con tutta l’emotività della sua voce. La diffidenza di Debenedetti per il lirismo puro e per l’oscurità ermetica è originaria e radicale. Per lui, ciò che interessa in un opera poetica è il romanzo sottinteso e sotterraneo che scorre al di là di procedimenti verbali così vistosamente nemici della lingua e dell’esperienza comune.
A questo punto, proprio per parlare di esperienza, va ricordato il saggio Critica ed autobiografia con cui si apre la prima raccolta di saggi di Debenedetti. Essendo un tipo particolare di scrittore, «ogni degno critico ha in mente un suo ideale di ’prosa’ (…) una prosa sostenuta sulle nervature del ragionamento e, insieme, sensibile alla varietà autobiografica di chi la scrive»: quindi «porterà il timbro specifico e incomparabile della sua personale esperienza di vita». Non c’è critica se non in presenza di quel soggetto autobiografico che è il critico.
Per chiudere il cerchio, non si può che ricordare il saggio che conclude la carriera di Debenedetti, voglio dire Commemorazione provvisoria del personaggio-uomo, recentemente ripubblicato dal Saggiatore con introduzione di Raffaele Manica. Qui la carta di identità del personaggio in ogni tipo di narrazione, la sua funzione primaria, è nel suo “motto araldico”: si tratta anche di te, de te fabula narratur. Il personaggio ha questa «virtù di mediatore» che rende «più praticabile la vita». Va aggiunto che la sua evoluzione «porge anche il filo rosso per seguire la storia, non solo della narrativa, ma di tutta la letteratura e forse anche delle altre arti. Attualmente, in quella evoluzione deve essere successo un salto qualitativo: ne è la prova la decadenza della critica che vorrei definire osmotica, la quale penetrava il personaggio e ne era penetrata (…) e alla fine arrivava sia a comprendere quel personaggio che ha spiegarlo».
Dunque, ci siamo: l’elemento strutturalmente dinamico intorno al quale ruota il romanzo e ogni genere narrativo, cioè il personaggio, ha bisogno, per essere indagato, di un particolare tipo di critica definibile “osmotica”, capace di rendersi permeabile alla letteratura e dalla quale la letteratura è organicamente permeata.
Proprio in queste righe Debenedetti nota polemicamente la comparsa di una critica di tutt’altro genere, tecnicamente estranea al sapere che la letteratura comunica: la critica strutturalistica e semiologica secondo cui, per principio, il critico non è un tipo di scrittore, è un analista che per dovere deontologico non deve farsi contaminare, permeare dalla letteratura, essendo e volendo essere uno scienziato. Dunque che cos’è un critico letterario secondo Giacomo Debenedetti? Per dirla in breve, il critico stesso è un personaggiouomo che cerca di incontrare nelle opere che legge un suo omologo nel mondo dell’invenzione: un homo fictus nel quale rispecchiarsi, nelle cui vicende, nel cui carattere e destino riconoscersi.
Questa presenza del personaggio in tutta la critica classica, oltre che nel romanzo, risulta piuttosto chiara. Prima che un libro come quello di Wellek e Warren, Teoria della letteratura e metodologia dello studio letterario inaugurasse un periodo nel quale l’attività critica credette di avere assoluto bisogno di una preliminare teoria e di qualche preliminare metodo, i critici erano ancora caratterizzati da una loro inconfondibile identità personale. Basta nominare, quasi a caso, De Sanctis, Eliot, Lukacs, Sklovskij, Benjamin, Wilson... Più che disporre di una teoria, ognuno di loro aveva delle idee orientative, si dava dei compiti, aveva degli interessi che imponevano scelte estetiche e politiche, interessi ricavati da una particolare coscienza della situazione storica in cui vivevano. Quasi nessuno di loro applicava un’estetica, pur adoperando, se era il caso, qualche definizione generale ricavata dalla filosofia, dalla linguistica, dalla sociologia, dalla psicologia. L’attività critica era comunque tutt’altro che applicazione. Aveva bisogno di una prosa, di uno stile saggistico.
Tornando a Debenedetti, che personaggiouomo era? Fra le tante testimonianze, Antonio Debenedetti mi ricorda i due più geniali ritratti di suo padre, firmati da Moravia e da Pasolini. Il primo parlò del suo charme «raffinato e familiare», della sua «cultura per niente libresca», della «qualità molto moderna e attuale della sua civiltà» e del suo essere civile «con trepidazione, con inquietudine, con angoscia». Pasolini ritrae Debenedetti poco dopo il 1945, negli anni della speranza, mentre tiene una conferenza. C’era in lui, nelle sue parole, dice Pasolini, «tutta la complicata macchina moralistica applicata al sistema letterario, c’era il suo accorato, eletto humour biografico, c’era la sua crudezza di indagine avanguardista per intellettuale violenza». C’era in un tale critico e scrittore, un uomo «che palpita, cerca, trema».