La borghesia come romanzo
Come è potuto accadere che la borghesia, nel momento stesso che il suo modello di sviluppo spopolava nel mondo oscurando ogni palingenesi rivoluzionaria, socialista o comunista che fosse, e consegnava ai suoi posteri il passe-partout del capitalismo industriale, per quanto reso opaco da quell’altro finanziario che inquinava il mercato a un tratto scomparisse dalla scena che aveva occupato per qualche secolo?
La questione è tutt’altro che peregrina e la risposta che sembrerà più pertinente orienterà i nostri giudizi sul presente e sul passato, aprirà o chiuderà le porte alle speranze o all’utopia, ci guiderà nella costruzione di una morale privata e civile, che, a sua volta, diventerà premessa di ogni possibile narrazione dell’avventura dell’esistenza, che resta comunque il punto di partenza di tutti i destini e, quindi, di ogni ordine o regola che finalmente rallenti l’ansia di cambiamento, suggerendo una consolatoria riconciliazione col passato.
Franco Moretti, proseguendo l’esplorazione del romanzo -esemplarmente genere della modernità - iniziata trent’anni fa con Il romanzo di formazione (1986), nel suo nuovo saggio descrive “tra storia e letteratura” il borghese, o meglio l’intera parabola della sua esistenza, dalle origini avventurose nel XVIII secolo alla scomparsa nella nebbia di una postmodernità straniante.
La storia inizia con il Robinson Crusoe di Defoe, il protagonista del quale «segna l’autentico inizio del mondo di oggi» sotto il segno dell’avventura, per procedere oltre fino a diventare un “padrone lavoratore” in un sistema industriale finalmente “regolato”, dove la stessa avventura si rivelerà superflua.
Il suo “stile” è quello dell’utile, «della prosa, dello spirito capitalistico, del progresso moderno», per poi svilupparsi nella narrazione descrittiva del quotidiano, che pensa di poter fare a meno di ogni intreccio o azione, lasciando spazio ai “riempitivi” che «offrono quel tipo di piacere narrativo che è compatibile con la nuova regolarità della vita borghese» e, spegnendo le emozioni più accese, si affida a una “passione calma”, che regola il ritmo del romanzo e parallelamente di un lavoro che si permette di lasciare in ombra il talento, fermando uno sguardo “oggettivo” sulle cose.
Dall’oggettività al realismo il passo è breve, ma comporta «la subordinazione radicale del presente al passato», in direzione di un conservatorismo sempre più invasivo, per il quale «le fondamenta del romanzo realistico» sono appunto “esistenza borghese e convinzioni conservatrici”, che, com’è evidente nella tradizione francese da Balzac a Flaubert, predilige trame regolate da pause descrittive «dove i lettori cercavano sempre più il signifi- cato dell’intera storia».
Il ruolo dei borghesi, ben riconoscibile «in ciò che questa classe ha fatto», secondo il Manifesto di Marx ed Engels è stato quello di svelare la mistificazione sentimentale dei rapporti familiari, riducendoli a «un puro rapporto di denaro», o, meglio ancora, di costringere tutta la società «ad affrontare la verità su se stessa»: l’inevitabile esito di questa deriva realistica sarà, come vide Max Weber, che un testo «può essere bello non soltanto senza essere buono ma per il fatto che tale non », o che «qualcosa può essere vero sebbene e in quanto non sia bello né sacro né buono», riconoscendo che l’affermazione del modello borghese aveva definitivamente rotto l’unità umanistica del sapere, rivendicando l’autonomia di ogni arte e scienza, libere di non essere utili o sagge e di inseguire soltanto la loro “coerenza”.
In questa prospettiva si apriva un baratro tra la bellezza moralizzata e l’universo delle professioni, isolando la prima in uno scenario non solo conservatore ma revivalistico, quello stesso del neogotico e di Ruskin, ostili al linguaggio della tecnica e alla precisione meccanica.
Inevitabilmente la contraddizione ideale scatenerà tensioni all’interno della stessa borghesia, delle quali si rivelerà attento osservatore Henrik Ibsen, che della classe dirigente offrirà un ritratto puntuale e spietato, perché nelle sue opere «la competizione interborghese è un combattimento mortale», che riesce quasi sempre a eludere il territorio dell’illegalità, preferendo «una inafferrabile zona grigia» che non consente sbrigativi e perentori giudizi, ma lascia spazio a «reticenza, slealtà, diffamazione, negligenza, mezze verità» e cioè a comportamenti equivoci, nei quali i valori della borghesia, a partire dall’onestà, sono appannati e umbratili, immersi in un’atmosfera torbida e sfuggente.
Di questa zona grigia Ibsen è stato l’esploratore, riconoscendo i segnali di un’«irrisolta dissonanza della vita borghese», di un latente conflitto che non riesce a esplodere, ma che nella sua prosa analitica riesce a rendere evidente la distanza tra comportamenti reali e valori proclamati, la terribile doppiezza che impedisce di intendersi.
La storia del borghese volge così verso la conclusione, la classe diventa dominante, le industrie possono produrre ogni cosa, ma la «folle biforcazione tra un dominio molto più razionale e un dominio molto più irrazionale sul mondo» consente di «riconoscere l’impotenza del realismo borghese davanti alla megalomania capitalista», conducendo la classe verso la sua emarginazione, se non estinzione, nonostante l’indiscutibile affermazione del suo progetto. Franco Moretti, Il borghese. Tra storia e letteratura, traduzione di Giovanna Scocchera (edizione originale in inglese 2013), Einaudi, Torino, pagg. 186, € 24