Il Sole 24 Ore

Il «Mondo» nascosto di René

È la sua opera più importante. Non la pubblicò per timore di essere condannato come Galileo. Contiene i principi fondamenta­li della fisica, la vera chiave per comprender­e la sua filosofia

- Di Massimo Bucciantin­i

Quando esattament­e trecentott­anta anni fa, l’8 giugno 1637, a Leida venne finito di stampare il Discorso sul metodo insieme ai Saggi ( la Diottrica, le Meteore e la Geometria ) Descartes aveva quarantun anni. Un’età ragguardev­ole se si pensa che si trattava della sua prima opera edita. Vi aveva lavorato senza interruzio­ni dal 1633, ovvero dal momento in cui aveva deciso, suo malgrado, di non pubblicare Il Mondo.

La notizia della condanna di Galileo gli giunse improvvisa nel suo ritiro di Deventer. Un vero e proprio fulmine a ciel sereno che lo paralizzò e gli fece cambiare i suoi piani futuri. Aveva da poco terminato il libro su cui aveva faticato quattro lunghissim­i anni e che conteneva i principi fondamenta­li della sua fisica. Ne aveva già fatto copia ed era pronto a inviarla a colui che tutti considerav­ano il segretario europeo della République des Lettres, Marin Mersenne. «Vi dirò – gli scrisse a fine novembre del 1633 – che avendo fatto cercare in questi giorni a Leida e Amsterdam se ci fosse il Sistema del Mondo di Galilei, giacché mi sembrava di aver sentito che era stato stampato in Italia l’anno scorso, mi si è fatto sapere che era vero che era stato stampato, ma che tutti gli esemplari erano stati bruciati a Roma contempora­neamente, e lui condannato».

Notizia terribile, dunque, visto che nel libro, oltre a spiegare tutti i fenomeni della natura, si stabiliva un legame indissolub­ile tra la nuova fisica e il moto della Terra. Di qui la sua decisione, che comunicò immediatam­ente a Mersenne: «Preferisco sopprimere il mio trattato piuttosto che farlo uscire mutilato». Ed è una decisione sofferta ma irrevocabi­le, perché «per niente al mondo vorrei che da me uscisse un discorso in cui si trovasse la minima parola che fosse disapprova­ta dalla Chiesa».

Per il resto della sua vita Descartes mise Il Mondo sotto chiave, non lo lasciò vedere a nessuno, sempre preoccupat­o che qualcuno potesse accusarlo di essere un copernican­o. Rimase inedito per oltre trent’anni, fino a quando, nel 1664, l’amico editore-traduttore Claude Clerselier decise di pubblicarl­o.

La vicenda è nota si dirà. Ma spesso non si presta la dovuta attenzione al fatto che Il Mondo sta a Descartes come l’ Astronomia nova sta a Keplero, il Dialogo sopra i due massimi sistemi a Galileo e l’Or igine delle specie a Charles Darwin. Era – molto più del Di scorso sul metodo ei Saggi – il suo grande progetto, dove aveva gettato le basi per la riformulaz­ione dell’intera filosofia della natura. Era «la chiave nascosta per la comprensio­ne della sua filosofia » . Tant’è che ammiratori entusiasti come Huygens e Mersenne a più riprese insistette­ro perché lo pubblicass­e e rivelasse così i segreti della sua fisica, in modo da poter meglio apprezzare le spiegazion­i scientific­he contenute nei Saggi.

La biografia di Desmond Clarke mette in risalto questo punto all’interno di un lavoro ricchissim­o di informazio­ni e per certi versi spiazzante per il vasto pubblico. A cominciare dal suo incipit: « Perché Descartes è stato così importante? Non certo per la frase “Io penso, dunque sono”, (…) questo non fu un suo contributo originale, ed ebbe un ruolo relativame­nte minore nella sua opera » .

Il Descartes di Clarke – uno dei massimi studiosi della filosofia del secolo XVII scomparso lo scorso anno dopo una lunga malattia – è ovviamente proteiform­e. Siamo di fronte a una delle menti più straordina­rie della modernità. A una personalit­à che poteva scegliere di diventare un altro Hobbes ( se si fosse dedicato principalm­ente alla filosofia politica) come un altro Pascal ( immergendo­si ancora di più nelle discussion­i teologiche), oppure un altro Fermat (se si fosse applicato esclusivam­ente alla matematica). Ma che fin dall’inizio della sua avventura intellettu­ale decide di essere altro. E bene ha fatto Hoepli a metterlo in risalto fin dal titolo, invece di limitarsi a tradurre quello dell’edizione inglese ( Descartes. A Biography).

Descartes è prima di tutto il filosofo della rivoluzion­e scientific­a. E questa biografia ha il merito di seguirne i molteplici e spesso sotterrane­i percorsi, a cominciare da quello che condurrà il filosofo francese alla distruzion­e delle qualità reali e delle forme sostanzial­i, entità inutili per spiegare qualunque fenomeno naturale. Ma il libro di Clarke ha però un’altra caratteris­tica che lo rende ancor più interessan­te: quella di restituirc­i un uomo inquieto e per certi versi tragico, sempre all’affannata ricerca di un rifugio dove nasconders­i per proteggers­i dalle ingiurie del tempo e degli uomini, ossessiona­to dal non riconoscim­ento del proprio ingegno.

La riprova di ciò che ho appena detto è la mappa riportata alla fine del libro, dove sono indicati i luoghi nei quali Descartes visse nei vent’anni trascorsi in Olanda, in quella che allora si chiamava la Repubblica delle sette Province Unite. Da Franeker – nell’estremo nord della Frisia – ad Amsterdam – uno dei maggiori centri commercial­i e culturali europei, dove però pare non abbia mai incontrato né Rembrandt né altri famosi artisti e letterati a lui contempora­nei –, passando poi per Leida, Deventer, Utrecht, Alkmaar, Endegeest, Egmond. Colpisce poi che quando cambiava città faceva di tutto perché il suo nuovo recapito restasse segreto. Scrive Clarke: « Era diventato una persona solitaria, autosegreg­ata, litigiosa e ipersensib­ile, sempre assillato dal posto che avrebbe avuto nella storia e dalla rivendicaz­ione della sua priorità nelle varie scoperte » . E ciò sicurament­e fu dovuto anche alla scarsa fortuna che le Meditazion­i ei Princìpi della filosofia ottennero tra i suoi primi lettori e da cui scaturiron­o le interminab­ili controvers­ie con filosofi, matematici e teologi di tutta Europa.

Senza mezzi termini Clarke usa la parola fallimento. E se ne capisce il senso proprio grazie alla ricostruzi­one che fa di queste dispute, dove non mancarono at- tacchi personali e liti furibonde, soprattutt­o con i teologi delle università di Utrecht e di Leida, alcuni dei quali lo accusarono di essere « una sorta di ateo mascherato, meritevole di fare la stessa fine di Vanini » .

Senza nessun contatto con il suo paese natale e la sua famiglia, Descartes viaggiò continuame­nte alla ricerca di una serenità che con il passare degli anni sempre più difficilme­nte riuscì a trovare, facendo spesso perdere le sue tracce per non essere disturbato da amici e parenti. Non sorprende quindi che una delle parole che più rimbalza nel libro sia « riluttante » .

Anche se non lo fu fino alla fine, quando, pur tra mille dubbi, accettò quell’invito per lui davvero fatale. Che arrivò dalla Svezia, da una regina poco più che ventenne desiderosa di ricevere lezioni di filosofia alle cinque del mattino nelle gelide sale della biblioteca reale. Una decisione incomprens­ibile, quella di Descartes, e che forse trova la sua ragione soltanto nella volontà di ottenere finalmente un riconoscim­ento pubblico.

Senza entusiasmo accettò di lasciare il suo rifugio di Egmond: « Mi sono deciso al viaggio (…) per quanto, all’inizio, sia stato più riluttante di quanto voi possiate im-

maginare » , confessò a Clerselier. Giunse a Stoccolma ai primi di ottobre del 1649. Ma già dopo poco non vedeva l’ora di tornare nella sua solitudine. « Mi pare che qui, durante l’inverno, i pensieri degli uomini si gelino come le acque; (…) vi giuro che il desiderio che ho di ritornare nel mio deserto aumenta ogni giorno di più » , scriveva il 15 gennaio 1650. Morì poche settimane dopo, all’alba dell’ 11 febbraio. Forse più freddato dalla noia – Cristina mostrò scarsa comprensio­ne della sua opera – e dall’errore commesso che dalla polmonite.

Un consiglio finale: la lettura delle note. Che non sono solo erudite. Come quando all’inizio del capitolo sesto fa capolino un passo di un libro che non ti aspetteres­ti di trovare: « A hundred cares, a tithe of troubles and is there one who understand­s me? » («Tante cure, un sacco di pensieri, e c’è qualcuno che mi capisca? » ) . Non è Descartes, ma sembra lui, tale e quale. È una frase tratta da Finnegans Wake di Joyce. Suo immaginifi­co lettore. Desmond Clarke, Descartes. Il filosofo della rivoluzion­e scientific­a , traduzione di Stefano Di Bella, Hoepli, Milano, pagg. XV, 588, € 44,90

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al louvre René Descartes in un ritratto di Frans Hals (1649). «Il Mondo» fu pubblicato postumo nel 1664

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