Lucia ritrova le origini
La novità è la scelta della prima versione di Donizetti allestita a Napoli. L’armonica a bicchieri accompagna la scena della pazzia
«Lucia» al San Carlo è un titolo obbligato. È come Traviata a Venezia. Non solo perché l’opera è nata qui, ma soprattutto perché l’autore ne ha individuato una tinta, un carattere, che la legano indissolubilmente con la città. Il pubblico partenopeo e i turisti lo sanno, il teatro trabocca, di posti esauriti e di entusiasmo. E il merito del successo, per una volta, va tutto al canto: con la terna dei protagonisti, Maria Grazia Schiavo, Saimir Pirgu e Claudio Sgura, il capolavoro di Donizetti si riafferma come straordinario banco di prova di invenzione vocale.
Il soprano napoletano, già star del barocco, ha le qualità ideali per il belcanto: volume sottile, ben timbrato, agilità facili e acuti che volano come saette. Sentirla dall’ultimo ordine dei palchi, su in alto (per chi non teme ogni sorta di vertigini) è un’esperienza, che saggia e la bravura del soprano e la fantastica acustica della sala. La Lucia della Schiavo sa che non esiste canto senza parola. E che ogni parola significa teatro, gesto, messa in moto di emozioni. Ogni sfumatura del testo diventa prima vaporosa e poetica, di donna innamorata, poi rabbiosa e inutilmente ribelle, di lei costretta a un matrimonio non voluto. Per trasformarsi ancora, nella scena finale della pazzia, in surreale dialogo con fantasmi.
Sul podio concerta con esperienza Stefano Ranzani, che dirige a memoria ed è in grado di tenere tempi lesti sul Coro. La novità (zampino del direttore artistico Pinamonti?) è la scelta della versione originale di Donizetti, con Glass-Harmonica. Onde evitare i famosi inciampi della “prima”, nel 1835, col suonatore virtuoso che cancellò le date (perché non era stato pagato dal teatro per un precedente balletto) per l’eccentrico strumento a bicchieri si sono ingaggiati ben due suonatori, Philipp Marguerre e Sascha Reckert. Così la scena della pazzia, con lo sfondo del timbro vetroso, astrale, disegnato sui pizzicati degli archi, diventa tutt’altra cosa rispetto alla versione comune col flauto. Perché nella misura straniata Lucia prende un vero taglio tragico, dove le colorature dicono lo smarrimento di ogni possibilità di contatto con lei, ormai folle. Non sono i gorgheggi beati di un usignolo. In anticipo su Freud, memore forse dell’Ariosto, Donizetti analizza la pazzia con la lucidità di un trattato di psicoanalisi.
Il regista Gianni Amelio, nella ripresa dello spettacolo, del 2012, suggerisce che questa dimensione rimanga l’unica regione di salvezza per una donna circondata da un mondo di maschi violenti, in grado di risolvere i conflitti esclusivamente con le armi. Ma proprio perché salva - trasportata sulla luna, con il suono dell’armonica a bicchieri - non si capisce perché Lucia debba presentarsi in scena vestita a lutto: secondo il libretto di Cammarano, avendo appena ucciso il novello sposo, dovrebbe essere in abiti succinti, da prima notte di nozze, sgualcita e coi capelli scarmigliati. Qui invece Lucia assassina arriva velata, in velluto nero, lungo, elegante, vittoriano (meraviglioso, come tutti i costumi, firmati dal mago del cinema Maurizio Millenotti). Forse è già in lutto per se stessa, visto che di lì a poco morirà? La scelta non convince. Anche se quel lago cupo, disegnato dal corpo di lei gettato a terra, crea un colpo d’occhio di grande effetto. Grazie soprattutto alla cornice delle scene di Nicola Rubertelli, magniloquenti e di generosa profondità, illuminate con maestria da Pasquale Mari.
Non è facile una regia tradizionale di Lu- cia. Il rischio è la perenne stasi. Che può diventare comica, quando ad esempio per risparmiare sui cavalli (che si sentono scalpitanti in orchestra) il baritono, cattivo, è già in scena, semi-nascosto. Ma il pubblico lo vede. E non si capisce come non lo veda il tenore, buono, che è lì a un passo e si lamenta, come tutti i romantici, tra un paio di libri sparsi a terra. Per fortuna i due, Claudio Sgura e Saimir Pirgu, cantano benissimo. Come del resto tutti i comprimari. E il pubblico li festeggia con i boati di una volta.
Unico neo, in un San Carlo tanto scintillante, quel che si vede prima di entrare in Teatro: volte scrostate e impacchettate, lampadari con sporcizia preistorica, locandine appese di un anno fa. Sicuramente per l’arrivo di Riccardo Muti, appena annunciato, col Così fan tutte, a inaugurare la stagione 2018, tutto sarà rimesso a nuovo. Ma il San Carlo chiede da subito un minimo esterno decoro. «Lucia di Lammermoor» di Donizetti; direttore Stefano Ranzani, regia di Gianni Amelio; Napoli, Teatro di San Carlo