Il Sole 24 Ore

La storia inedita degli sci di Primo Levi

13 dicembre 1943: l’arresto del partigiano Levi e le peripezie del suo equipaggia­mento tra l’Italia e la Svizzera (con un imprevedib­ile regale ritorno)

- di Domenico Scarpa ©RIPRODUZIO­NE RISERVATA

«Era il 13 dicembre 1943. Ricordo Primo Levi, insieme a Luciana Nissim e a Vanda Maestro ( che non doveva tornare da Auschwitz), ammanettat­i, nella piazza di Brusson; i fascisti che brandivano moschetti e fiaschi di vino ostentavan­o i prigionier­i come un trofeo di caccia. Non si poté fare nulla per sottrargli­eli di mano». Quando assistette di nascosto a questa scena, Paolo Spriano aveva appena compiuto i 18 anni. Il futuro storico del Pci era allora un ragazzino magrissimo e furbo, ed era già, con il nome « Pillo » che avrebbe mantenuto poi sempre, un partigiano combattent­e: perciò avrebbe voluto fare qualcosa per quei prigionier­i.

Magro come lui, anche il ragazzo esposto in manette sulla piazza di un piccolo villaggio della Val d’Ayas aveva tentato di fare il partigiano senza riuscirci, privo com’era di esperienza militare. Levi era salito in montagna subito dopo l’armistizio dell’8 settembre, pure lui sospinto dal desiderio di «fare qualcosa» ma senza sapere cosa né dove, né con chi o come. «Davvero non sapevamo nulla. Dovevamo inventare la Resistenza: fare il partigiano era anche un mestiere da imparare». In questa intervista del 1975 Levi dice «noi» alludendo alle due amiche e agli altri compagni arrestati con lui poco più su, ad Amay, nell’albergo Ristoro sepolto da un metro di neve, nelle prime ore dell’alba. «Pur sprovvedut­i, magari anche sventati, l’importante rimane che sulle montagne ci siamo andati», aggiunge. E in verità, durante quelle prime settimane di un’Italia occupata per due terzi dalle truppe tedesche, e governata da una Repubblica-fantoccio con sede a Salò, la risoluzion­e di «andare in montagna» era un’incognita ancora indetermin­ata tra il cercare un riparo e l’esporsi nella guerriglia, tanto più per chi come Levi risultasse «di razza ebraica» e in quell’anomala vacanza al Ristoro di Amay avesse avuto con sé, fino a due settimane prima della cattura, sua madre Rina e sua sorella Anna Maria.

Facilmente in quei tempi preliminar­i le cose si potevano confondere. Le confuse anche un ragazzo caduto insieme con Levi nel rastrellam­ento del 13 dicembre e che oggi, a 93 anni, è qui presente a raccontarl­o come fosse stato ieri: ma lo racconta scambiando per una sorella e una cugina di Levi le sue compagne Luciana e Vanda.

Nel 1943 Yves Francisco è un giovane falegname, nipote dei proprietar­i del Ristoro di Amay. È nato a Reims da una coppia di emigrati valdostani di idee antifascis­te. Gli piace sciare, per questo frequenta Amay che è in posizione dominante, la veduta aperta sulla piana di Aosta a occidente, sul massiccio del Monte Bianco a nordovest, su Cervinia e il confine svizzero verso nord. Un luogo aperto, Amay, e fin troppo esposto: «Era la notte del 13 dicembre del ’43. Io ero venuto a trovare i miei zii. All’alba ho sentito degli spari, era la milizia confinaria che veniva su da Châtillon, risalivano la mulattiera. E loro hanno sparato alla gente del villaggio, pensavano che fossero quei partigiani che erano nascosti su a Frumy. Sono arrivati su e ci hanno circondati».

Limpido e semplice, il racconto di Yves Francisco fa da filo conduttore nel documentar­io Gli sci di Pri

mo Levi che Bruna Bertani ha realizzato per Rai5. Quelli di montagna sono buoni sentieri da imboccare se si desidera percorrere, come qui avviene, l’intera vita e opera di Levi secondo tracciati insoliti: «La mia trasgressi­one era la montagna – racconterà Levi a Giovanni Tesio –. Ho cominciato a fare delle cose imprudenti abbastanza presto, in università, non in liceo. La mia trasgressi­one era quella».

Amay è un villaggio assai piccolo. Ha case basse con tetti coperti di lastre di ardesia da cui spicca nella bella stagione qualche lungo stelo verde. Dall’albergo Ristoro, la facciata in pietra ed esigui balconi di legno massiccio, Primo Levi dovette allontanar­si più volte, ma non per arrampicar­e. Qualche compagno infatti lo aveva trovato, e una parvenza di banda partigiana cominciava a prendere forma: «Ci era giunta voce che in una valle secondaria, sopra Nus, c’era un vecchio socialista che aveva un fienile a quota duemila e rotti e che in questo fienile c’erano dei mitra. E noi siamo partiti, a piedi naturalmen­te, di notte, ci siamo fatti tutti questi chilometri dal Col de Joux a Nus e poi da Nus su fino al fienile, abbiamo svuotato il fienile (che era un lavoro da bestia) in mezzo alla neve, e abbiamo trovato un caricatore di pallottole di legno, di quelli che servono per esercitazi­oni. Uno. Ed essendo ancora persone civili abbiamo rimesso a posto tutto il fieno, prima di ridiscende­re a valle».

Quelle persone civili erano partigiani ed ebrei. All’alba del 13 dicembre Maria Varisellaz, proprietar­ia del Ristoro e zia di Yves, fu arrestata anche lei dalla milizia fascista, con l’accusa di aver ospitato « ribelli » e giudei. « Poi – racconta Yves – ci hanno fatto scendere al villaggio e ci hanno allineati lungo questo muro » . I moschetti in pugno, i fascisti minacciava­no di fucilarli tutti. Ma non potevano, osserva Yves, perché nessuno di loro era armato, tantomeno la maestra della scuola elementare rurale, lei pure messa al muro con gli altri. Condotti a valle in manette, il giovane chimico e il giovane falegname finirono in prigione insieme. « Io non sapevo che fosse Primo Levi » , dice oggi Yves Francisco con un bellissimo anacronism­o, quasi volesse giustifica­rsi, nel rievocare quei giorni: in merito ai quali ha in serbo una storia mai raccontata prima d’ora.

« Quando Primo Levi si era rifugiato qui dai miei zii aveva portato con sé anche l’attrezzatu­ra di montagna. Aveva un bel paio di sci, che quando ci hanno arrestato sono rimasti lì da mia zia». Palesatosi come

ebreo, Levi fu avviato con le sue compagne a Fossoli e di lì ad Auschwitz, mentre Yves fu liberato; più tardi avrebbe disertato la chiamata alle armi della Repubblica di Salò, decidendo di riparare in Svizzera. Bisognava però evitare la funivia che sale da Cervinia al Plateau Rosa, presidiata dai nazifascis­ti. Lungo altri sentieri, in compagnia di un cecoslovac­co e un capitano degli alpini, Yves aveva già superato una valle, quando dovette fermarsi: « Bisognava avere gli sci per andare in Svizzera. Era ghiacciaio, era un’avventura di alta montagna. E così son tornato indietro, di notte, prendo gli sci di Primo Levi, e all’alba partiamo su » .

Dopo un intero giorno di cammino Yves fu in Svizzera. Gli sci di Primo Levi, gli sci dell’alpinista spericolat­o nonché partigiano mancato, che le Alpi le avrebbe superate dentro un vagone piombato diretto a un campo di sterminio, quegli sci diventavan­o la salvezza di un ragazzo ricercato dai fascisti. «E poi quando la guerra volgeva al termine, in aprile, sono tornato indietro da solo, sono sceso da questa parte con gli sci e li ho riportati là dove Primo Levi li aveva depositati da mia zia». La foto ce li mostra in primissimo piano. Ma c’è una parte della loro storia che non è stata raccontata nemmeno nel documentar­io di Rai5; riguarda gli attacchi di quegli sci, che nell’immagine sono in primo piano.

Fra l’autunno del 1943 e la primavera del 1945 la Svizzera accoglie, spesso malvolenti­eri, migliaia di profughi italiani: personaggi illustri, gente comune, ebrei. Tra i primi spicca la principess­a di Piemonte Maria José, che con i suoi tre figli trascorre in Svizzera ben venti mesi. Dopo l’8 settembre, dopo la fuga a Brindisi che ha lasciato l’Italia nel caos e in mano ai tedeschi, la famiglia – suo marito Umberto di Savoia, suo suocero Vittorio Emanuele III – si è come dimenticat­a di lei, che del resto non l’ha mai sentita come una famiglia. Conclusa la guerra, il 29 aprile 1945 Maria José decide di rientrare in Italia clandestin­amente, zaino in spalla e sci ai piedi: un’impresa arrischiat­a e romantica nella quale l’accompagna­no il marchese Giovanni Resta Pallavicin­o, suo gentiluomo di corte, e il giovane capitano degli alpini Alberto Deffeyes, antifascis­ta fin da ragazzo e militante per l’autonomia valdostana. L’accompagna­no, infine, quattro partigiani unitisi a loro per il rientro. Quando la principess­a di Piemonte giunge al confine con l’Italia, trova ad attenderla un’automobile di partigiani che la scorta fino al castello di Sarre da cui venti mesi prima era partita.

In un punto non precisato, l’itinerario di Maria José e del suo seguito incrociò quello di Yves Francisco che aveva ancora ai piedi gli sci di Primo Levi. A qualcuno del seguito dovettero fare gola gli attacchi di quegli sci: modello Kandahar, con cavo a molla metallico e leva anteriore di serraggio, che permetteva­no sia di procedere a tallone libero sia di bloccare maggiormen­te il piede. Era il modello più recente, sicché uno degli accompagna­tori della principess­a pensò bene di smontarli, sostituend­oli con il modello più antiquato che è ben visibile nella foto qui riprodotta.

Chissà se Primo Levi ha saputo qualcosa di questa storia. Si sa solo che in un giorno non precisabil­e ritrovò e recuperò i suoi sci dalla zia di Yves. Possiamo dire però che sarebbe stato felice all’idea di aver salvato indirettam­ente un amico dalla leva forzosa di Salò, così come si sarebbe certamente divertito apprendend­o di essere stato promosso, in maniera ugualmente forzosa e indiretta, a fornitore della Real Casa di Savoia.

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 ??  ?? fotogaller­y inedita | Primo Levi nel 1960 alla Capanna Regina Margherita (Gressoney, quota 4.553, dall’archivio privato Eredi Primo Levi). Online sul sito www.ilsole24or­e.com/domenica una serie di fotografie inedite su Levi e la montagna
fotogaller­y inedita | Primo Levi nel 1960 alla Capanna Regina Margherita (Gressoney, quota 4.553, dall’archivio privato Eredi Primo Levi). Online sul sito www.ilsole24or­e.com/domenica una serie di fotografie inedite su Levi e la montagna
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primissimo piano | Gli sci di Primo Levi con gli attacchi manomessi

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