Il car sharing tra privati ridisegna la mobilità urbana
Il car sharing tra privati ridisegna la mobilità urbana. Anche tra le case automobilistiche c’è chi non teme il cambiamento
Da qualche settimana, a Berlino e Bonn, i proprietari di Smart possono facilmente condividere la loro auto con gli amici. Lo fanno via smartphone e senza bisogno di passarsi fisicamente le chiavi, grazie alla tecnologia «Smart ready to share», che sfrutta le connessioni di bordo presenti in vettura. A regime, il servizio sarà attivo in 29 città tedesche. Il fatto che Daimler – proprietaria del marchio Smart – guardasse con interesse all’evoluzione del car sharing in chiave peer to peer, era apparso chiaro già con l’annuncio dell’accordo tra Mercedes-Benz e Getaround, società di car sharing tra privati di San Francisco.
Il caso Daimler non è isolato. Peugeot ha stretto accordi con Koolicar: grazie a questa partnership, dallo scorso 31 gennaio, in Francia, ogni proprietario di Peugeot può offrire in noleggio il proprio veicolo quando non è utilizzato. L’auto progettata per essere utilizzata in modo condiviso ha poi convinto anche Geely. La casa cinese che possiede Volvo ha lanciato il nuovo marchio Lynk & Co, annunciando il modello «01», che unendo connessione e software dedicato permette l’uso condiviso tra più persone, non solo familiari.
Su questo fronte, le case tradizionali sembrano più avanti anche della Tesla di Elon Musk, che comunque sta preparando il «Tesla network». Già oggi, in fase di ordine, è possibile configurare ogni Tesla in modo che possa essere noleggiata a conoscenti ed estranei, anche in questo caso con la possibilità di incassare denaro per il servizio fornito.
Come gli altri trend che riguardano il futuro dell’automobile – autonoma, connessa, elettrica – anche quello che si sviluppa intorno all’idea di auto condivisa sta evolvendo. Il car sharing come lo conosciamo oggi è considerato un modello classico, in uso in molte città, anche in Italia: con 2.095 vetture, Milano è la terza città al mondo per offerta di veicoli in car sharing, dopo Berlino e Vancouver, che vantano rispettivamente 2750 e 2.275 veicoli. Enjoy, car2go, DriveNow: società private acquistano un numero di veicoli da lasciare “liberi” in città, pronti all’uso per i loro clienti, con una formula che è molto simile al noleggio ma con procedure velocissime. Conosciuto come car sharing centralizzato, questo modello non è sempre privo di difetti: genera sì un business sostenibile, ma soprattutto in grandi aree metropolitane; per questo, se applicato in realtà meno estese, offre ritorni economici dubbi per gli investitori.
C’è poi il modello “aperto”, quello del car sharing peer to peer: la condivisione avviene tra privati. «La macchina – spiega Sergio Savaresi, docente al corso Automation and control in vehicles al Polimi – è sempre di proprietà. Il proprietario però decide di metterla “all’attivo”, condividendola in cambio di un ritorno economico. Spesso è la seconda auto». Gli scenari possibili sono tre: «Decido di condividere l’auto con tutti, con gruppi chiusi (condominio, via, quartiere, ecc.) o all’interno di un’organizzazione, configurando in questo caso un salto logico anche per le flotte aziendali, almeno quelle impostate sul concetto di uso esclusivo del mezzo assegnato».
Il modello insegue una soluzione per quello che gli esperti chiamano “il dilemma del capo famiglia”. Quale auto acquistare? Quella adatta agli spostamenti più frequenti (brevi, in città) non sempre è adatta nei week-end, in vacanza o per le lunghe trasferte. «Oggi – spiega Savaresi – il dilemma è spesso (non) risolto acquistando l’auto capace di rispondere ai massimi bisogni, soprattutto in termini di capacità di carico».Più l’area è ad alta densità abitativa, più aumentano le potenzialità del car sharing tra privati. Le esperienze non mancano: oltre alle già citate Getaround e Koolicar, il car sharing peer to peer è cresciuto intorno a società come Tamyca, Wego, Car next door, Drivemycar, Drivy e Papazz.
Restano però esperienze limitate, con ostacoli, oltre che culturali, anche tecnologici. «Fare car sharing con lo scambio fisico delle chiavi – spiega Savaresi – è inefficiente. Rendere l’auto apribile con una chiave elettronica è una condizione indispensabile per l’evoluzione delle modalità di condivisione di un veicolo». Per rendere “teleapribile” una vettura bisogna però modificarne l’elettronica: cosa che ha dei costi e non sempre è possibile: dipende dalla volontà dei costruttori.
Eppure qualcosa si muove. Gli esempi di Daimler, Peugeot, Tesla e Geely dimostrano che l’evoluzione del car sharing in una nuova formula che vede il cliente come nodo attivo del servizio muove non solo le iniziative locali di community isolate, ispirate più dai valori dell’economia circolare che da quelli del business, ma anche gli interessi dalle grandi case automobilistiche che, peraltro, sono già ben posizionate nel business del car sharing classico: è il caso di Daimler (car2go), BmwMini (DriveNow), Fca (Enjoy), Toyota (Evo Car Share) e Psa (Emov).
«Il car sharing – spiega Andrea Striglio, chief financial officer di Fiat, incontrato da Nòva in occasione del Sap executive summit 2017 - sarà sempre più una forma collaterale della mobilità. Come produttori, siamo interessati all’idea di estrarre valore dai servizi che una vettura connessa può offrire». «Soprattutto in un mercato maturo come quello europeo – continua Striglio – osservo con attenzione l’evoluzione del car sharing e le sue potenzialità. Pensare auto progettate per essere condivise potrebbe essere una mossa per mantenere l’attuale livello di redditività».
Cavalcare il cambiamento o rallentarlo? Giunti davanti al bivio, scegliendo di integrare la predisposizione alla condivisione già nel progetto della vettura - fino a farne un tratto nativo e distintivo - i produttori sembrano aver imboccato la prima direzione.