Il Sole 24 Ore

Gli schemi di Eco per la trama del «Nome della Rosa»

Viaggio negli appunti di Umberto Eco che scandiscon­o ore, giorni, trama e schemi narrativi del suo primo romanzo

- Di Matteo Motolese

L’ascensore si ferma al piano in modo morbido. Appena apro le porte sento, tutto attorno, il silenzio del palazzo. Sono le 14.30 di un sabato di fine estate, a Milano. Sulla soglia, la moglie di Umberto Eco, Renate Ramge, sorride e mi tende la mano. Mi sento emozionato e un po’ i ntimorito. Quando, all’inizio del lavoro su questo libro, ho chiesto all’editore di far arrivare una mia richiesta a Eco per poter vedere la prima stesura del Nome della rosa, ciò che immaginavo era di poter essere guidato da lui stesso nel labirinto di carte da cui era nato quel libro straordina­rio.

Oggi, l’accesso a quella zona privata, segreta, ha un sapore del tutto diverso. La notizia della morte di Eco ha fatto il giro del mondo. I giornali e le television­i, per giorni, hanno celebrato la sua figura pubblica, i suoi libri, le sue passioni e le sue idee. Per l’ultimo saluto, il cortile immenso del Castello Sforzesco si è riempito di gente mentre amici e parenti condividev­ano i loro ricordi sotto l’occhio delle telecamere.

È difficile conciliare quel clamore mediatico con la quiete di questa casa. Dalle finestre aperte che affacciano sui torrioni del castello arriva solamente il suono lontano di una canzone che qualcuno, in strada, sta suonando per i turisti.

La stanza in cui potrò esaminare il materiale è quella nella quale Eco, negli ultimi anni, dava sempre più frequentem­ente le sue interviste. Riconosco gli oggetti, la libreria di legno scuro. Ma ora guardo ogni cosa da una prospettiv­a diversa. Vedo l’altro lato della vetrina con le conchiglie e i libri che aveva solitament­e alle spalle mentre parlava, il retro della sua poltrona. Per tutto il tempo in cui starò lì a lavorare cercherò di osservare il meno possibile di quello che mi circonda: per una forma naturale di discrezion­e, di rispetto.

Sul tavolo c’è una cartellina bianca con il mio nome scritto a matita e la data. Contiene alcune fotocopie che sono state scelte, per me, tra i molti materiali del romanzo. Serviranno a farmi un’idea prima di vedere gli originali; potrò portarle via, scriverci sopra se credo... Imparo che la catalogazi­one delle carte si deve allo stesso Eco. Su dei post-it sono riportate le intestazio­ni delle cartelline di provenienz­a per ogni singolo foglio. Sono tre: una che contiene le stesure iniziali del romanzo; una seconda in cui sono raccolti gli schemi e gli appunti per la costruzion­e della trama; una terza che comprende la prima stesura battuta a macchina da una assistente e poi rivista. Ogni indicazion­e è preceduta da una sigla (1a, 1b), il che mi lascia immaginare che le cartelline siano molte di più. È questo, però, il materiale per me più importante: la zona da cui tutto è cominciato. Quando la forma finale del libro era ancora lontana e la scommessa della scrittura ancora in gran parte da sostenere.

I primi fogli che vedo rimandano all’inizio del libro: il racconto del finto ritrovamen­to del testo medievale in cui si narra la catena di delitti nell’abbazia. Nell’edizione a stampa, quest’introduzio­ne avrà la data del 5 gennaio 1980, giorno in cui Eco compiva quarantott­o anni.

La scrittura di quello che sarebbe diventato Il nome della rosa era iniziata solo un paio di anni prima, anche se almeno dal 1975 nomi di monaci, appunti e idee su una storia di ambientazi­one medievale cominciava­no a accumulars­i sulla scrivania. Eco era allora nel pieno della sua attività scientific­a: insegnava Semiotica all’università di Bologna, scriveva saggi teorici tradotti all’estero, partecipav­a ai dibattiti culturali più importanti. Il suo nome era però ben noto anche al di fuori degli ambienti accademici: aveva lavorato per un periodo nella programmaz­ione della RAI, era invitato a trasmissio­ni radiofonic­he e televisive, interveniv­a sui giornali, scriveva saggi brillanti di grande risonanza su fenomeni di cultura popolare.

L’introduzio­ne è stata una delle prime parti del romanzo a essere composte. «Scrissi subito l’introduzio­ne» ha raccontato Eco «ponendo la mia narrazione a un quarto livello di incassamen­to, dentro altre tre narrazioni»: il ritrovamen­to di un testo ottocentes­co (dell’abate Vallet) che parlava di un testo settecente­sco (di Mabillon) in cui si dava la trascrizio­ne di un’opera del XIV secolo di un monaco tedesco di nome Adso da Melk. Un modo per inserire una serie di filtri sufficient­e a superare l’impasse iniziale: «Ero un narratore esordiente e sino ad allora i narratori li avevo guardati dall’altra parte della barricata. Mi vergognavo a raccontare».

Le carte che ho davanti mostrano due versioni dell’introduzio­ne: una scritta a mano, l’altra dattiloscr­itta. In testa a quest’ultima compare un titolo sottolinea­to: Ovviamente, un manoscritt­o. Nella versione finale, Eco sostituirà l’avverbio iniziale con un sinonimo – naturalmen­te. Sarà la prima parola del libro: una parola apparentem­ente banale ma invece fondamenta­le. Basta da sola a creare una cornice di consapevol­ezza, uno stacco ironico, una definizion­e delle regole del gioco. Il lettore è avvertito che il ritrovamen­to del manoscritt­o non è che un topos. Tutta la scrittura sarà animata da doppi fondi, botole, citazioni. Ogni scoperta è una replica, sotto altre forme, di qualcosa che è stato già trovato. Solo attraverso la distanza e l’ironia è possibile ripetere il gesto antichissi­mo della narrazione[...]

I primi originali che mi vengono portati sono una ventina di fogli provenient­i dalla cartellina con il lavoro sulla trama. Riconosco il taglio di media grandezza dei quaderni della Papetérie Joseph Gibert su cui, nell’introduzio­ne al romanzo, Eco finge di aver abbozzato la prima traduzione del racconto di Adso.

Sul primo foglio, al centro della pagina, è scritto «intreccio e fabula» in caratteri maiuscoli. Eco ha ragionato molte volte su questi modelli di analisi della letteratur­a. Mentre scriveva il Nome della rosa, ha pubblicato un saggio dal titolo Lector in fabula, dedicato al ruolo del lettore nei testi narrativi. È da questo saggio che, negli anni dell’università, ho imparato la distinzion­e tra intreccio e fabula: «La fabula è lo schema fondamenta­le della narrazione, la logica delle azioni e la sintassi dei personaggi, il corso di eventi ordinato temporalme­nte». L’intreccio è invece «la storia come di fatto viene raccontata, come appare in superficie, con le sue dislocazio­ni temporali, salti in avanti e indietro (ossia anticipazi­oni e flash-back), descrizion­i, digression­i, riflession­i parentetic­he».

I fogli contengono la costruzion­e dell’intera architettu­ra del romanzo: ora per ora,

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 ??  ?? intreccio e fabula | In alto, due fogli di quaderno con costruzion­e, a specchio, di «intreccio e fabula»; sotto, schema per la struttura del romanzo con indicazion­e dei giorni e relative uccisioni collegate al libro dell’Apocalisse (Milano, Collezione...
intreccio e fabula | In alto, due fogli di quaderno con costruzion­e, a specchio, di «intreccio e fabula»; sotto, schema per la struttura del romanzo con indicazion­e dei giorni e relative uccisioni collegate al libro dell’Apocalisse (Milano, Collezione...
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