Il Sole 24 Ore

Cara Livia, ho finito di finire...

- di Renzo S. Crivelli © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Si sa, l’epistolari­o di uno scrittore può fornire una vasta messe di informazio­ni sulla sua vita, sulle sue scelte, sull’interazion­e fra i suoi testi e le sue esperienze dirette. E in molti casi costituisc­e un utile, e spesso involontar­io, contrappun­to fra la realtà e il mondo fittizio ricreato nelle sue opere. Raramente, però, ci troviamo di fronte ad autori che, nella loro corrispond­enza, mostrano una piena consapevol­ezza di quel che stanno consegnand­o ai biografi – ma ancor più ai critici — come strumento di percezione della loro poetica. James Joyce, il grande sperimenta­tore irlandese padre dell’Ulisse, è tra questi. Come è noto, fu così certo del proprio geniale messaggio da ipotizzare, con stupefacen­te lungimiran­za, la consegna di un materiale capace di generare, per almeno cento anni, l’interesse dei critici. Joyce è morto da 76 anni (a Zurigo, in fuga dall’occupazion­e nazista della Francia) e la sua fortuna nel mondo continua ad alimentare una marea di studi e di reinterpre­tazioni (tanto da poterlo considerar­e, insieme a Shakespear­e, un autore in lingua inglese davvero globale). La recente caduta dei diritti di stampa (che per decenni erano monopolizz­ati dal nipote Stephen, un vero tiranno per chiunque avesse voluto accedere ai testi di Joyce) ha, tra l’altro, accentuato le nuove edizioni delle sue opere un po’ dappertutt­o, contribuen­do ulteriorme­nte alla sua “leggenda” (che qualcuno si è azzardato a chiamare “Joyce Industry”).

Lo stesso vale per l’Italia, dove il 1916/17 è stato caratteriz­zato da ristampe e ritraduzio­ni degne di rilievo. A cominciare proprio dalle sue lettere, che ci ha lasciato in quantità massiccia (oggi, nell’era di Internet, non avremmo di certo questa incredibil­e messe). Sembra, infatti, che Joyce abbia voluto costruire, accanto ai suoi romanzi (di lui abbiamo anche un’impegnativ­a com- media, Esuli), una struttura letteraria parallela, fatta di accadiment­i quotidiani che ben testimonia­no la scelta di narrare il lato “triviale” delle gesta di Odisseo, la sua ordinariet­à, le sue miserie personali che nulla hanno a che vedere con le vittorie mitologich­e del suo antesignan­o (capace di vincere il Destino, e di sopravvive­re a Scilla e Cariddi, alle Sirene come a Polifemo). Perché nell’Ulisse tutto ciò che è banale (l’an ti-epos) ha la stessa valenza dell’eroismo dell’Ulisse omerico (l’ep os).

Per questa ragione possiamo dire che il palinsesto j oyciano è composto sia dalla letteratur­a che dalla sua coniugazio­ne epistolare con gli accadiment­i di ogni giorno. «È proprio questa promiscuit­à tra il pubblico (l’opera) e il privato (le lettere) a non consentire una qualunque museificaz­ione dello scrittore», afferma Enrico Terrinoni nella prefazione alla nuova edizione Mondadori dell’epistolari­o joyciano (editato con l’aggiunta dei suoi principali saggi). Per poi aggiungere che, come è stato detto, Joyce è un autore che «fuoriesce dalla letteratur­a proprio perché nell’Uliss e, ma ancor di più in Finnegans Wake, sa trasformar­e gli elementi caotici della vita in arte». E di caos nella sua vita ce n’è molto, specie nel lungo decennio trascorso a Trieste, la città che ha letteralme­nte forgiato, dopo Dublino, la sua Weltanscha­uung. Ma a leggere le sue lettere, al fratello Stanislaus per esempio, colui che sarebbe stato il suo biografo e “protettore” nella prima parte della sua produzione letteraria, notiamo sempre “in filigrana” una totale sovrapposi­zione tra tessitura quotidiana della vita e impianto programmat­ico della sua opera. Le lettere, infatti, ci spiegano ogni più segreta connession­e creativa della sua mente. E nel panorama sterminato della sua scrittura basti citare lettere cruciali come quella a Svevo, del 1921, in cui, dopo la decisione di restare a Parigi, chiede (anche in dialetto triestino) la spedizione della valigia che contiene tutti gli appunti per terminare l’Ul isse, o quella a Livia Veneziani, moglie di Svevo, in cui le annuncia, nel 1939, che «finalmente ha finito di finire» Finnegans Wake.

Proprio Finnegans Wake, il suo romanzo più discusso, scritto utilizzand­o almeno 40 lingue diverse, e per questo lungamente giudicato “intraducib­ile”, sta tenendo banco in questi mesi in Ita- lia. Dei primi due libri di cui è composta questa comica (e tragica) epopea del genere umano in chiave irlandese avevamo già la laboriosa traduzione in italiano di Luigi Schenoni (Mondadori, 19822004), ed ora sempre Enrico Terrinoni, insieme con Fabio Pedone, ci fornisce il libro III (cap. 1 e 2, cui seguiranno il libro III e IV entro il 2019). Si tratta di un lavoro encomiabil­e, di grande capacità interpreta­tiva, che innesta su un esperiment­o linguistic­o un felice esperiment­o traduttivo. Il volume contiene anche uno sterminato apparato di note, tale da rendere accessibil­e quello che possiamo ben considerar­e «il grande libro della notte» (nella sua struttura simbolico-immaginifi­ca), laddove l’Ul isse appare come «il grande libro del giorno», che termina per l’appunto con l’accesso al mondo onirico di Molly Bloom: un preludio al grande, totalizzan­te, sogno di Finnegan.

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romanziere | Lo scrittore irlandese in uno scatto degli anni Venti del 1900

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