A chi conviene la stupid ità
Il paradosso della stupidità è un nome nuovo per una storia antica. Chiunque abbia lavorato per e dentro un’azienda si è accorto che talvolta a un dipendente conviene fare una cosa che lui ritiene stupida. In questo modo compiace i capi e l’apparente mancanza d’intelligenza è funzionale alla sua carriera e a un buon clima interno. Questo vantaggio però, sul lungo termine, può tradursi in uno svantaggio maggiore per l’azienda e i suoi clienti.
L’esempio più recente citato da Alvesson e Spicer nella prefazione al libro è quello delle banche. I dipendenti di alcune banche sono stati, spesso inconsapevolmente, stupidi nel compiacere i dirigenti e nell’indurre i clienti a operazioni svantaggiose. A forza di persuadere i clienti, molti si erano convinti loro stessi. E tuttavia le banche sono pressoché fallite. Sono arrivati nuovi dirigenti e la stessa categoria dei dipendenti avrà a patirne. Il paradosso consiste nel fatto che un comportamento stupido può rivelarsi positivo per pochi nel breve termine e un disastro per molti nel lungo termine.
L’inizio della storia risale alla grande intelligenza di uno studioso inglese, Ronald Coase (1910-2013). Giovanissimo, com’è testimoniato da una l ettera che manda al suo amico Fowler il 10 ottobre 1932, era andato oltre l’ovvio. Provate a chiedere a una persona dotata solo di sen- so comune perché un’azienda esiste e perché è così grande? Vi dirà che la dimensione è quella che è perché chi l’ha fatta e la gestisce pensa che quella sia la grandezza più conveniente. Questa risposta non è altro che una riformulazione della domanda, come spesso capita nell’economia e nella psicologia ingenue.
Fu Coase ad avere la risposta giusta e, da allora, come lui raccontò in occasione del premio Nobel il 9 dicembre 1991, «il sole non cessò più di splendere « ( forse alludeva al nome del sobborgo di Londra dove era nato: in anglosassone significa la collina della primavera). Immaginiamo che nel mondo non ci siano organizzazioni. Avremmo solo quella che Coase chiama concorrenza atomistica, cioè il lavoro di individui singoli: potremmo immaginare persone con un libro Iva che si mettono ogni volta d’accordo per produrre qualcosa. « Nei fatti – scrive Coase a Fowler – non è così. Perché? Credo che la ragione debba essere trovata nei costi per condurre a termine queste transazioni di mercato » , cioè i costi psicologici necessari per giungere a un accordo tra più persone libere e presenti nel mercato del lavoro. Questi costi sono
eliminati in un’organizzazione gerarchica in cui i superiori dicono ai dipendenti che cosa fare. E l’organizzazione nasce e cresce perché riesce a operare con un costo inferiore a quello delle transazioni di mercato che vengono sostituite.
Coase va negli Stati Uniti con una lettera di presentazione di Ernest Bevin, il più importante sindacalista inglese, e studia le relazioni delle imprese automobilistiche con i loro fornitori, dimostrando la correttezza della sua impostazione teorica (oggi i suoi due lavori più importanti
hanno più di 65mila citazioni su Google Scholar, un record).
In un’organizzazione complessa nessuno ha un quadro completo della situazione e il comando permea i diversi livelli gerarchici. Se si dovesse sempre convincere tutti, tanto varrebbe contare solo sulla concorrenza atomistica. Farne a meno fino a un certo punto è vantaggioso, ma anche pericoloso se il comando non è esercitato con intelligenza. Alvesson e Spicer presentano una tassonomia di tutte le situazioni aziendali in cui questa in- telligenza viene a mancare.
L’analisi dei mali è ricca, ma la ricetta per la cura non è originale né specifica della vita aziendale. Essa si riduce all’esercizio del pensiero critico: osservare bene le cose, non accettare le opinioni prevalenti ma cercare di falsificarle, mettersi dal punto di vista degli altri, vigilare sui limiti delle nostre conoscenze, insomma esercitare il dubbio sistematico e non cadere nelle trappole dell’ottimismo a tutti i costi. Peccato. Perché anche qui si annida un problema irrisolto.
Molti studiosi si stanno interessando a quella che viene chiamata l’illusione della conoscenza, cioè credere di sapere come stanno le cose pur di venire a patti con un mondo complesso. Un libro di Steve Sloman e Philip Fernbach, appena uscito, ha proprio questo titolo e i due psicologi esaminano a fondo le radici di questa illusione benefica nel senso che rende la vita sociale meno problematica. C’è un rapporto tra l’illusione della conoscenza degli individui e il paradosso della stupidità dentro le aziende? Alvesson e Spicer non danno risposta. Eppure, anche in questo caso, la radice del problema è lontana. Perché una società socialista come l’URSS, con un solo padrone (il partito o la classe operaia?), non funzionava come una singola fabbrica? Temeva forse l’irradiarsi degli errori fino ai meandri più periferici di un’unica organizzazione? Mats Alvesson, André Spicer, Il paradosso della stupidità. Il potere e le trappole della stupidità nel mondo del lavoro, Raffaello Cortina Editore, Milano pagg. 223, € 19
Steve Sloman, Philip Fernbach, The Knowledge Illusion. Why We Never Think Alone, Riverhead Books, New York, pagg. 304, $ 14,64