Il Sole 24 Ore

A chi conviene la stupid ità

- di Paolo Legrenzi

Il paradosso della stupidità è un nome nuovo per una storia antica. Chiunque abbia lavorato per e dentro un’azienda si è accorto che talvolta a un dipendente conviene fare una cosa che lui ritiene stupida. In questo modo compiace i capi e l’apparente mancanza d’intelligen­za è funzionale alla sua carriera e a un buon clima interno. Questo vantaggio però, sul lungo termine, può tradursi in uno svantaggio maggiore per l’azienda e i suoi clienti.

L’esempio più recente citato da Alvesson e Spicer nella prefazione al libro è quello delle banche. I dipendenti di alcune banche sono stati, spesso inconsapev­olmente, stupidi nel compiacere i dirigenti e nell’indurre i clienti a operazioni svantaggio­se. A forza di persuadere i clienti, molti si erano convinti loro stessi. E tuttavia le banche sono pressoché fallite. Sono arrivati nuovi dirigenti e la stessa categoria dei dipendenti avrà a patirne. Il paradosso consiste nel fatto che un comportame­nto stupido può rivelarsi positivo per pochi nel breve termine e un disastro per molti nel lungo termine.

L’inizio della storia risale alla grande intelligen­za di uno studioso inglese, Ronald Coase (1910-2013). Giovanissi­mo, com’è testimonia­to da una l ettera che manda al suo amico Fowler il 10 ottobre 1932, era andato oltre l’ovvio. Provate a chiedere a una persona dotata solo di sen- so comune perché un’azienda esiste e perché è così grande? Vi dirà che la dimensione è quella che è perché chi l’ha fatta e la gestisce pensa che quella sia la grandezza più convenient­e. Questa risposta non è altro che una riformulaz­ione della domanda, come spesso capita nell’economia e nella psicologia ingenue.

Fu Coase ad avere la risposta giusta e, da allora, come lui raccontò in occasione del premio Nobel il 9 dicembre 1991, «il sole non cessò più di splendere « ( forse alludeva al nome del sobborgo di Londra dove era nato: in anglosasso­ne significa la collina della primavera). Immaginiam­o che nel mondo non ci siano organizzaz­ioni. Avremmo solo quella che Coase chiama concorrenz­a atomistica, cioè il lavoro di individui singoli: potremmo immaginare persone con un libro Iva che si mettono ogni volta d’accordo per produrre qualcosa. « Nei fatti – scrive Coase a Fowler – non è così. Perché? Credo che la ragione debba essere trovata nei costi per condurre a termine queste transazion­i di mercato » , cioè i costi psicologic­i necessari per giungere a un accordo tra più persone libere e presenti nel mercato del lavoro. Questi costi sono

eliminati in un’organizzaz­ione gerarchica in cui i superiori dicono ai dipendenti che cosa fare. E l’organizzaz­ione nasce e cresce perché riesce a operare con un costo inferiore a quello delle transazion­i di mercato che vengono sostituite.

Coase va negli Stati Uniti con una lettera di presentazi­one di Ernest Bevin, il più importante sindacalis­ta inglese, e studia le relazioni delle imprese automobili­stiche con i loro fornitori, dimostrand­o la correttezz­a della sua impostazio­ne teorica (oggi i suoi due lavori più importanti

hanno più di 65mila citazioni su Google Scholar, un record).

In un’organizzaz­ione complessa nessuno ha un quadro completo della situazione e il comando permea i diversi livelli gerarchici. Se si dovesse sempre convincere tutti, tanto varrebbe contare solo sulla concorrenz­a atomistica. Farne a meno fino a un certo punto è vantaggios­o, ma anche pericoloso se il comando non è esercitato con intelligen­za. Alvesson e Spicer presentano una tassonomia di tutte le situazioni aziendali in cui questa in- telligenza viene a mancare.

L’analisi dei mali è ricca, ma la ricetta per la cura non è originale né specifica della vita aziendale. Essa si riduce all’esercizio del pensiero critico: osservare bene le cose, non accettare le opinioni prevalenti ma cercare di falsificar­le, mettersi dal punto di vista degli altri, vigilare sui limiti delle nostre conoscenze, insomma esercitare il dubbio sistematic­o e non cadere nelle trappole dell’ottimismo a tutti i costi. Peccato. Perché anche qui si annida un problema irrisolto.

Molti studiosi si stanno interessan­do a quella che viene chiamata l’illusione della conoscenza, cioè credere di sapere come stanno le cose pur di venire a patti con un mondo complesso. Un libro di Steve Sloman e Philip Fernbach, appena uscito, ha proprio questo titolo e i due psicologi esaminano a fondo le radici di questa illusione benefica nel senso che rende la vita sociale meno problemati­ca. C’è un rapporto tra l’illusione della conoscenza degli individui e il paradosso della stupidità dentro le aziende? Alvesson e Spicer non danno risposta. Eppure, anche in questo caso, la radice del problema è lontana. Perché una società socialista come l’URSS, con un solo padrone (il partito o la classe operaia?), non funzionava come una singola fabbrica? Temeva forse l’irradiarsi degli errori fino ai meandri più periferici di un’unica organizzaz­ione? Mats Alvesson, André Spicer, Il paradosso della stupidità. Il potere e le trappole della stupidità nel mondo del lavoro, Raffaello Cortina Editore, Milano pagg. 223, € 19

Steve Sloman, Philip Fernbach, The Knowledge Illusion. Why We Never Think Alone, Riverhead Books, New York, pagg. 304, $ 14,64

 ??  ?? gerarchie | Paolo Villaggio nei panni di Giandomeni­co Fracchia con il capo Gianni Agus (1968)
gerarchie | Paolo Villaggio nei panni di Giandomeni­co Fracchia con il capo Gianni Agus (1968)

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy