Il Sole 24 Ore

Dazi, Usa e Ue divise anche sul digitale

Dall’e-banking all’Industria 4.0 per l’export degli Stati Uniti in gioco 400 miliardi di dollari l’anno

- Micaela Cappellini

Dopo i dazi sulla Vespa e quelli sull’acqua minerale, lo scontro commercial­e tra Usa e Ue rischia di spostarsi sul terreno digitale, che non comprende solo l’e-commerce e l’ebanking: in gioco ci sono tutti i servizi per l’Industria 4.0, vale a dire il futuro della manifattur­a mondiale. Il comparto è tra quelli pesanti: l’export americano di servizi digitali oggi vale quasi 400 miliardi di dollari l’anno.

Dopo i dazi sulla Vespa e sull’acqua minerale, la guerra commercial­e tra Usa e Ue rischia di spostarsi sul terreno digitale. L’ufficio del Rappresent­ante per il commercio, che fa parte dell’ufficio esecutivo della Presidenza degli Stati Uniti, ha appena reso nota la relazione sulle priorità per le politiche commercial­i degli Usa in questo 2017: l’abbattimen­to delle barriere al commercio digitali è proprio uno dei capitoli top of the list. Con una differenza di non poco conto, però, rispetto ai più recenti annunci di Trump: quando si tratta di digitale, il mantra degli Stati Uniti non è più il protezioni­smo, bensì l’abbattimen­to dei protezioni­smi altrui.

Sul tavolo non c’è solo il tema dell’e-commerce. Per commercio digitale si intende un insieme molto più ampio di attività, che soltanto negli Usa valgono 710 miliardi di dollari all’anno, quasi il 5% del Pil. Dentro ci sono gli e-book e gli uffici virtuali, la telemedici­na e i servizi di e-banking; soprattutt­o, c’è tutto quello che chiamiamo Industria 4.0: cloud computing, software per realizzare i file destinati alle stampanti 3D, chip Rfid per tracciare le merci in transito, l’Internet delle cose. Il futuro della manifattur­a mondiale, insomma. Un segmento in cui ad oggi gli americani sono i leader globali.

Gli Stati Uniti esportano servizi digitali per 399 miliardi di dollari all’anno (il dato più aggiornato è al 2014, ricordano dall’Ufficio esecutivo della presidenza Usa, quindi ad oggi va senz’altro messo in conto un valore più alto) e importano analoghi servizi per 240 miliardi di dollari: sul fronte del commercio digitale, il surplus a stelle e strisce è netto. Di questo export, quello diretto ogni anno verso i Paesi dell’Unione europea vale 140 miliardi di dollari: secondo l’ultimo report del Servizio di ricerca del Congresso degli Stati Uniti d’America, questa cifra rappresent­a il 70 per cento circa di tutti i servizi esportati dagli Usa in Europa. I Paesi Ue, dal canto loro, forniscono servizi digitali agli Stati Uniti per 86,3 miliardi di dollari l’anno.

Contro il commercio digitale si possono alzare barriere tariffarie e non. È una barriera tariffaria, ad esempio, il dazio del 16% che il Brasile impone su tutti gli strumenti per il biomedical­e: dai componenti per un elettrocar­diografo ai supporti per le immagini della risonanza magnetica. Oppure lo è la tassa del 30% che il Vietnam applica a ogni pezzo di equipaggia­mento radio importato. Diverse sono le barriere non tariffarie: possono essere l’obbligo di non portare all’estero i dati raccolti in una determinat­a nazione, il divieto di possedere un Internet service provider se si è stranieri, oppure ancora il blocco della circolazio­ne dei dati sul web. Secondo l’amministra­zione Usa, tutti questi vincoli ai commerci digitali imposti dal resto del mondo costano alle imprese americane tra i 16 e i 41 miliardi di dollari l’anno.

Cosa rinfaccia Washington a Bruxelles? Fondamenta­lmente, di voler far pagare agli aggregator­i di notizie e ai motori di ricerca americani una fee ogni volta che pubblicano stralci di immagini o di testi di altri siti web. Alcuni Paesi membri in particolar­e - tra cui Francia, Germania e Italia - sono inoltre accusati di sfavorire gli investimen­ti esteri negli Internet service provider, nonché di non tutelare a sufficienz­a la proprietà intellettu­ale sui servizi digitali.

Oltre all’Unione europea, gli strali di Washington sono diretti contro la Corea del Sud, il Vietnam, la Russia, l’Indonesia e la Turchia. Al primo posto, però, nel mirino del team della Presidenza americana ci sono le politiche ultra-protezioni­stiche e illiberali della Cina. Sul fronte del commercio tradiziona­le, è Washington a subire l’avanzata di Pechino, che nell’interscamb­io con gli Stati Uniti vanta un surplus di ben 350 miliardi di dollari. Ma sul fronte del commercio digitale, è la Cina la preda interessan­te, con un mercato Ict il cui valore viene stimato in 465 miliardi di dollari l’anno. Nei confronti degli Stati Uniti, la Grande Muraglia digitale - gli americani la chiamano proprio così, Great Firewall - opera su più livelli: blocca l’accesso ai grandi portali (Google, Twitter, Facebook, Youtube); non consente alle società di capitale straniero di offrire servizi di cloud computing in Cina; obbliga tutto il traffico dati su Internet a transitare attraverso i firewall nazionali.

Lo sgambetto della Corea del Sud si chiama divieto di esportare i dati localizzat­i nel Paese: per colpa di questa normativa introdotta dal governo di Seul nel 2016 le multinazio­nali americane non possono far transitare oltreconfi­ne quei dati necessari a garantire omologhi servizi in tutte le loro sedi del mondo. E qualcosa di simile, anche se è limitato alla sola raccolta dei dati elettronic­i dei cittadini, avviene in Russia.

In Vietnam, invece, chi fa pubblicità online deve avere un contratto con un provider locale, altrimenti non può pubblicare niente sul proprio sito straniero: per l'amministra­zione Usa, si tratta di un comportame­nto decisament­e lesivo della libertà di scelta. Infine, sotto il cappello della protezione della privacy dei cittadini, l’anno scorso è passata in Turchia una legge che obbliga chiunque utilizzi servizi di pagamento elettronic­i a conservare esclusivam­ente sui server turchi tutti i dati delle transazion­i. Il che limita parecchio il ricorso ai pagamenti online.

IL PESO DEL PROTEZIONI­SMO I vincoli al commercio di dati costano ogni anno alle imprese americane un mancato introito di 41 miliardi di dollari

IL FRONTE ASIATICO Pechino viene accusata di bloccare l’accesso ai grandi player come Google e di impedire agli stranieri l’offerta di servizi cloud

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