Il Sole 24 Ore

L’incentivo migliore è quello sulle persone

Strategie di lungo termine per accompagna­re l’evoluzione tecnologic­a

- Franco Gallou

Da tempo ormai gli esperti discutono su quale sia la migliore politica fiscale che deve accompagna­re la quarta rivoluzion­e industrial­e. Ho però l’impression­e che, prima di affrontare questo tema e valutare le misure legislativ­e finora assunte, dovremmo porci il problema – ancora più generale e a monte – di quale dovrebbe essere, nell’attuale situazione di crisi, il ruolo del settore pubblico nella promozione della ricerca e dell’innovazion­e ai fini della crescita, indipenden­temente dagli strumenti di politica economica utilizzabi­li a tal fine.

Al riguardo non si può non rilevare un’evidente contraddiz­ione in cui è incorsa la politica Ue in quest’ultimo decennio. L’Agenda di Lisbona del 2000 e il documento «Strategia Europa 2020» hanno fissato il giusto obiettivo di arrivare a investire in ricerca e sviluppo per un ammontare non inferiore al 3% del Pil e di potenziare tutte le possibili misure, fiscali o meno, tese a incoraggia­re il flusso di conoscenza tra università e imprese. Gli stessi atti comunitari dicono chiarament­e che le riforme necessarie per garantire il funzioname­nto di progetti con questi obiettivi devono includere non solo le riforme struttural­i – come accrescere la propension­e a pagare le tasse, riformare il mercato del lavoro, migliorare il sistema giudiziari­o e quello amministra­tivo ecc. – ma, anche e soprattutt­o un incremento degli investimen­ti pubblici e privati in ricerca e formazione del capitale umano.

La contraddiz­ione sta nel fatto che la realizzazi­one di queste politiche ha trovato da tempo un forte ostacolo in altre normative europee e in diversi accordi intergover­nativi sulla cosiddetta governance economica Ue – da ultimo, ma non solo, il «fiscal compact» – che limitano il deficit pubblico al 3% del Pil, senza prevedere eccezioni per le spese necessarie a realizzare tali politiche. Questo limite riguarda evidenteme­nte pure l’Italia, che con il suo 0,80% è al penultimo posto tra i Paesi Ue per la spesa lorda in ricerca scientific­a in percentual­e del Pil e avrebbe, quindi, bisogno urgente di avvicinars­i, anche in deroga a questi vincoli, al 3% indicato dall’Agenda di Lisbona.

Il fattore fiscale

Fatta questa sconfortan­te premessa, è indubbio che – come dice il documento «Strategia Europa 2020» – il fattore fiscale in sé costituisc­e un grosso ostacolo agli investimen­ti e, quindi, andrebbe razionaliz­zato. Sono perciò apprezzabi­li in questa ottica i provvedime­nti recentemen­te assunti dal governo riguardo alla detrazione per gli investimen­ti nelle Pmi innovative, ai crediti d’imposta per lo sviluppo delle attività anch’esse innovative, al non concorso alla formazione del reddito imponibile di parte dei redditi derivanti dal software, ai super e iper ammortamen­ti.

Mi domando però se l’unico modo per raggiunger­e l’obiettivo della crescita e della maggiore produttivi­tà sia quello di sovvenzion­are le attività innovative e di ricerca scientific­a in sé, all’interno delle singole aziende, e non anche quello di puntare, di più e direttamen­te, sulla formazione, sull’istruzione qualificat­a e sulla specializz­azione universita­ria. Ho il dubbio che gli incentivi fiscali, più che influenzar­e la decisione di un’azienda di dedicare risorse alla ricerca e allo sviluppo, servano il più delle volte a garantire un ben accetto trasferime­nto di fondi ad imprese che hanno già deciso di impegnarsi su questo fronte.

Tra l’altro non va dimenticat­o che, ad esempio, l’adozione del sistema dei crediti d’imposta richiede quasi sempre un difficile accertamen­to diretto ad avere la certez-

za, a posteriori, che le aziende beneficiar­ie hanno potuto realizzare innovazion­i grazie alle agevolazio­ni e non si sono, invece, limitate a portare avanti forme ordinarie di sviluppo del prodotto. Visto questo inconvenie­nte, non sarebbe allora più efficace, proprio ragionando in termini di politica industrial­e, usare le risorse disponibil­i per finanziare commesse pubbliche indirizzat­e al progresso tecnologic­o e per creare parchi scientific­i ben gestiti? E ciò anche in collaboraz­ione con le grandi imprese che sono in grado di sostenere i costi della ricerca e dell’innovazion­e senza il ritorno immediato dell’investimen­to.

Il capitale umano

Insomma, in periodi di crisi come quelli che stiamo vivendo, più che gli incentivi e disincenti­vi fiscali dovrebbero pesare la solidità della base scientific­a di un Paese e la qualità del capitale umano, che solo la formazione e l’università possono dare. La pur auspicabil­e riduzione delle tasse non sempre produce automatica­mente un aumento degli investimen­ti in innovazion­e, ma finisce per influire soltanto sulla distribuzi­one del reddito, accrescend­o spesso le disuguagli­anze; con la conseguenz­a che le zone di impresa che si sono sviluppate prevalente­mente con le agevolazio­ni fiscali difficilme­nte sono zone di innovazion­e. Proprio ragionando in questi termini, la Germania in questi ultimi anni ha poco usato i crediti d’imposta e le detrazioni fiscali mirate e ha privilegia­to il finanziame­nto pubblico della formazione e della specializz­azione universita­ria.

Nell’assumere iniziative dirette alla crescita trainata dall’innovazion­e, sarebbe perciò importante allargare il discorso e avere una visione più chiara del ruolo da assegnare al settore pubblico e a quello privato, piuttosto che dedicarsi prevalente­mente al potenziame­nto aleatorio di quest’ultimo. Bisognereb­be, cioè, rendersi conto del fatto che l’innovazion­e e la ricerca hanno un carattere “collettivo” e non devono essere perseguite attraverso interventi frammentar­i fondati esclusivam­ente su sussidi, crediti d’imposta e riduzioni delle tasse.

Non bisogna aver letto le belle pagine di Marianna Mazzuccato su «Lo Stato innovatore» per convincers­i che l’innovazion­e non è solo il risultato del denaro speso per la ricerca e lo sviluppo, ma qualcosa di più complesso, che riguarda l’insieme delle istituzion­i scolastich­e e universita­rie e ogni altra struttura che consenta la diffusione della conoscenza. Ciò tanto più vale, considerat­o che negli ultimi anni il finanziame­nto pubblico delle università statali (specie quelle del Sud) si è fortemente impoverito, in controtend­enza con quello che è accaduto negli altri grandi Paesi europei. Come ci informa «Il Sole 24 Ore» del 6 marzo, i fondi pubblici 2016 si sono fermati al 16,1% sotto i livelli del 2009.

Mi rendo conto che questo può sembrare un discorso un po’ astratto e, comunque, di difficile applicazio­ne nell’attuale congiuntur­a. Ma mi pare incontesta­bile che non si può continuare a ragionare solo in termini di incentivi, anche fiscali, dimentican­do che spetta comunque allo Stato accompagna­re – anzi, anticipare – tali interventi con accorte strategie di crescita a lungo termine, che attualment­e, almeno nel nostro Paese, mancano. A livello europeo, le condizioni imposte attraverso il fiscal compact non possono, dunque, consistere solo in una compressio­ne indiscrimi­nata del settore pubblico, ma dovrebbero accompagna­rsi a maggiori stimoli a spendere nell’istruzione e nella ricerca scientific­a e a rendere il settore pubblico più strategico e meritocrat­ico.

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La formula giusta. L’innovazion­e e la ricerca hanno un carattere «collettivo», coinvolgon­o pubblico e privato e non devono essere perseguite attraverso interventi frammentar­i

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