L’incentivo migliore è quello sulle persone
Strategie di lungo termine per accompagnare l’evoluzione tecnologica
Da tempo ormai gli esperti discutono su quale sia la migliore politica fiscale che deve accompagnare la quarta rivoluzione industriale. Ho però l’impressione che, prima di affrontare questo tema e valutare le misure legislative finora assunte, dovremmo porci il problema – ancora più generale e a monte – di quale dovrebbe essere, nell’attuale situazione di crisi, il ruolo del settore pubblico nella promozione della ricerca e dell’innovazione ai fini della crescita, indipendentemente dagli strumenti di politica economica utilizzabili a tal fine.
Al riguardo non si può non rilevare un’evidente contraddizione in cui è incorsa la politica Ue in quest’ultimo decennio. L’Agenda di Lisbona del 2000 e il documento «Strategia Europa 2020» hanno fissato il giusto obiettivo di arrivare a investire in ricerca e sviluppo per un ammontare non inferiore al 3% del Pil e di potenziare tutte le possibili misure, fiscali o meno, tese a incoraggiare il flusso di conoscenza tra università e imprese. Gli stessi atti comunitari dicono chiaramente che le riforme necessarie per garantire il funzionamento di progetti con questi obiettivi devono includere non solo le riforme strutturali – come accrescere la propensione a pagare le tasse, riformare il mercato del lavoro, migliorare il sistema giudiziario e quello amministrativo ecc. – ma, anche e soprattutto un incremento degli investimenti pubblici e privati in ricerca e formazione del capitale umano.
La contraddizione sta nel fatto che la realizzazione di queste politiche ha trovato da tempo un forte ostacolo in altre normative europee e in diversi accordi intergovernativi sulla cosiddetta governance economica Ue – da ultimo, ma non solo, il «fiscal compact» – che limitano il deficit pubblico al 3% del Pil, senza prevedere eccezioni per le spese necessarie a realizzare tali politiche. Questo limite riguarda evidentemente pure l’Italia, che con il suo 0,80% è al penultimo posto tra i Paesi Ue per la spesa lorda in ricerca scientifica in percentuale del Pil e avrebbe, quindi, bisogno urgente di avvicinarsi, anche in deroga a questi vincoli, al 3% indicato dall’Agenda di Lisbona.
Il fattore fiscale
Fatta questa sconfortante premessa, è indubbio che – come dice il documento «Strategia Europa 2020» – il fattore fiscale in sé costituisce un grosso ostacolo agli investimenti e, quindi, andrebbe razionalizzato. Sono perciò apprezzabili in questa ottica i provvedimenti recentemente assunti dal governo riguardo alla detrazione per gli investimenti nelle Pmi innovative, ai crediti d’imposta per lo sviluppo delle attività anch’esse innovative, al non concorso alla formazione del reddito imponibile di parte dei redditi derivanti dal software, ai super e iper ammortamenti.
Mi domando però se l’unico modo per raggiungere l’obiettivo della crescita e della maggiore produttività sia quello di sovvenzionare le attività innovative e di ricerca scientifica in sé, all’interno delle singole aziende, e non anche quello di puntare, di più e direttamente, sulla formazione, sull’istruzione qualificata e sulla specializzazione universitaria. Ho il dubbio che gli incentivi fiscali, più che influenzare la decisione di un’azienda di dedicare risorse alla ricerca e allo sviluppo, servano il più delle volte a garantire un ben accetto trasferimento di fondi ad imprese che hanno già deciso di impegnarsi su questo fronte.
Tra l’altro non va dimenticato che, ad esempio, l’adozione del sistema dei crediti d’imposta richiede quasi sempre un difficile accertamento diretto ad avere la certez-
za, a posteriori, che le aziende beneficiarie hanno potuto realizzare innovazioni grazie alle agevolazioni e non si sono, invece, limitate a portare avanti forme ordinarie di sviluppo del prodotto. Visto questo inconveniente, non sarebbe allora più efficace, proprio ragionando in termini di politica industriale, usare le risorse disponibili per finanziare commesse pubbliche indirizzate al progresso tecnologico e per creare parchi scientifici ben gestiti? E ciò anche in collaborazione con le grandi imprese che sono in grado di sostenere i costi della ricerca e dell’innovazione senza il ritorno immediato dell’investimento.
Il capitale umano
Insomma, in periodi di crisi come quelli che stiamo vivendo, più che gli incentivi e disincentivi fiscali dovrebbero pesare la solidità della base scientifica di un Paese e la qualità del capitale umano, che solo la formazione e l’università possono dare. La pur auspicabile riduzione delle tasse non sempre produce automaticamente un aumento degli investimenti in innovazione, ma finisce per influire soltanto sulla distribuzione del reddito, accrescendo spesso le disuguaglianze; con la conseguenza che le zone di impresa che si sono sviluppate prevalentemente con le agevolazioni fiscali difficilmente sono zone di innovazione. Proprio ragionando in questi termini, la Germania in questi ultimi anni ha poco usato i crediti d’imposta e le detrazioni fiscali mirate e ha privilegiato il finanziamento pubblico della formazione e della specializzazione universitaria.
Nell’assumere iniziative dirette alla crescita trainata dall’innovazione, sarebbe perciò importante allargare il discorso e avere una visione più chiara del ruolo da assegnare al settore pubblico e a quello privato, piuttosto che dedicarsi prevalentemente al potenziamento aleatorio di quest’ultimo. Bisognerebbe, cioè, rendersi conto del fatto che l’innovazione e la ricerca hanno un carattere “collettivo” e non devono essere perseguite attraverso interventi frammentari fondati esclusivamente su sussidi, crediti d’imposta e riduzioni delle tasse.
Non bisogna aver letto le belle pagine di Marianna Mazzuccato su «Lo Stato innovatore» per convincersi che l’innovazione non è solo il risultato del denaro speso per la ricerca e lo sviluppo, ma qualcosa di più complesso, che riguarda l’insieme delle istituzioni scolastiche e universitarie e ogni altra struttura che consenta la diffusione della conoscenza. Ciò tanto più vale, considerato che negli ultimi anni il finanziamento pubblico delle università statali (specie quelle del Sud) si è fortemente impoverito, in controtendenza con quello che è accaduto negli altri grandi Paesi europei. Come ci informa «Il Sole 24 Ore» del 6 marzo, i fondi pubblici 2016 si sono fermati al 16,1% sotto i livelli del 2009.
Mi rendo conto che questo può sembrare un discorso un po’ astratto e, comunque, di difficile applicazione nell’attuale congiuntura. Ma mi pare incontestabile che non si può continuare a ragionare solo in termini di incentivi, anche fiscali, dimenticando che spetta comunque allo Stato accompagnare – anzi, anticipare – tali interventi con accorte strategie di crescita a lungo termine, che attualmente, almeno nel nostro Paese, mancano. A livello europeo, le condizioni imposte attraverso il fiscal compact non possono, dunque, consistere solo in una compressione indiscriminata del settore pubblico, ma dovrebbero accompagnarsi a maggiori stimoli a spendere nell’istruzione e nella ricerca scientifica e a rendere il settore pubblico più strategico e meritocratico.