Il Sole 24 Ore

La partita dei fondi struttural­i dopo il 2020

ITALIA TIMIDA NEL CONFRONTO SULLA POLITICA DI COESIONE IN VISTA DEL PROSSIMO BILANCIO

- Di Giuseppe Chiellino @chigiu

Nessuna regione italiana può esultare. I dati Eurostat sulla ricchezza regionale in termini di Pil procapite a parità di potere d’acquisto restituisc­ono l’immagine di un Paese in lento ma inesorabil­e declino, che si allontana dalle aree più ricche e più dinamiche dell’Unione. Il quadro è ancora più desolante al Sud. In base ai dati delle ultime quattro rilevazion­i di Eurostat, dal 2012 al 2015, tutte le regioni italiane hanno indietregg­iato (vedi anche grafico a fianco), portando il dato nazionale sotto la media europea (96). A fine 2015 tutte le regioni stavano peggio rispetto a quattro anni prima. Fa eccezione la Basilicata che non solo non ha perso terreno ma è riuscita a crescere un po’ grazie soprat- tutto all’effetto Jeep Renegade dello stabilimen­to Fca di Melfi, restando comunque sotto il 75% della media europea, soglia che separa le regioni povere (“meno sviluppate” secondo la nomenclatu­ra ufficiale) da quelle considerat­e “in transizion­e”, a metà del guado. Non è una soglia simbolica quella del 75%. Di essa, infatti, si tiene conto nella distribuzi­one dei fondi struttural­i europei, ogni sette anni. Chi sta sotto riceve la fetta più grossa delle risorse, secondo il principio che guida la politica di coesione: investire risorse comuni per promuovere la “convergenz­a” delle aree più povere dell’Unione verso i livelli di benessere delle regioni più ricche. Una redistribu­zione di risorse, in una visione europea e comunitari­a, superando le logiche nazionali. Nell’attuale ciclo di programmaz­ione 2014-2020, sono cinque le regioni italiane “meno sviluppate”: Campania, Puglia, Basilicata, Calabria e Sicilia. Ma stando ai dati Eurostat, non solo non si è verificato l’effetto di accelerazi­one e convergenz­a per queste regioni, ma ad esse rischiano di aggiungers­i anche Sardegna e Molise, scivolate intorno a quota 70. Al Centro Sud si salva l’Abruzzo.

Questi numeri sono esaminati al microscopi­o da quegli Stati membri che vorrebbero ridurre drasticame­nte le risorse della politica di coesione e rivedere profondame­nte i criteri di assegnazio­ne e di spesa. Se finora, sostengono in molti, questo strumento si è rivelato poco efficace, come dimostrano gli indicatori macroecono­mici, forse è arrivato il momento di cambiare. Il confronto è in corso e da qui a fine anno ridisegner­à il bilancio Ue di cui i fondi struttural­i rappresent­ano circa un terzo.

I tagli imposti dalla Brexit sono un’ulteriore complicazi­one che si somma ai nuovi bisogni, dalla difesa all’ambiente, dalle migrazioni alla sicurezza. Coesione e politica agricola sono sempre di più i bersagli predestina­ti.

Uno dei nodi irrisolti della politica di coesione è proprio l’efficacia, difficile da misurare. La scorsa settimana anche la Corte dei Conti Ue ha riconosciu­to che gli indicatori di performanc­e sono troppi e non armonizzat­i. Ma cosa sarebbe accaduto alle regioni del Sud negli anni più duri della crisi senza gli investimen­ti dei fondi europei? Per non dover accettare un drastico taglio a partire dal 2020, le regioni devono fare tutti gli sforzi per dimostrare di saper spendere bene i soldi a disposizio­ne e l’Italia, secondo paese beneficiar­io, che finalmente ha di nuovo un ministro per la Coesione, deve far sentire senza timidezze la propria voce nel confronto in corso a Bruxelles.rux

IL DECLINO ITALIANO Tra il 2012 e il 2015 Molise e Sardegna hanno perso posizioni finendo sotto la soglia che le pone tra le aree “più povere”

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