Formazione, il primo investimento
Da un punto di vista di politica industriale, il 2016 è stato caratterizzato del tema della digitalizzazione delle imprese italiane, anche alla luce dei nuovi trend globali: Industry 4.0 si presenta come una quarta rivoluzione industriale che, applicando nuove tecnologie (big data, cloud computing, realtà aumentata, stampa in 3D per citarne alcune) alle tecniche produttive oggi in uso, cambia radicalmente l’attuale modo di concepire la produzione.
Il nostro Paese sconta storicamente gravi ritardi su molte di queste nuove tecnologie, anche se su alcune (come la robotica) vantiamo delle eccellenze. Con la legge di Bilancio è stato varato il Piano Industria 4.0, volto a convogliare diversi miliardi (pubblici e privati) nel prossimo triennio per introdurre nelle aziende una trasformazione digitale in grado di modificarne profondamente l’organizzazione. Ma ciò che, a nostro avviso, sembra non sia stato ancora pienamente valutato è l’impatto sul merca- to del lavoro: quali nuove professionalità saranno necessarie e quali, invece, potrebbero essere destinate a sparire nel breve periodo? Sarà necessario rinnovare profondamente le attuali dinamiche contrattuali, abbandonando automatismi e standardizzazioni non più rispondenti con il modello di fabbrica che verrà?
L’argomento è stato affrontato all’ultimo World Economic Forum, dove è emerso che i fattori tecnologici e demografici stanno già adesso influenzando profondamente l’evoluzione del lavoro e lo faranno ancora di più nei prossimi anni. Si prevede che entro il 2020, a livello globale, tali nuove spinte porteranno alla creazione di circa due milioni di posti di lavoro, contro la dissoluzione di approssimativamente sette milioni delle occupazioni attuali. L’Italia non dovrebbe subire un contraccolpo particolarmente significativo, ipotizzandosi un numero di nuove assunzioni (circa 200mila) pari ai posti persi. Le posizioni professionali maggiormente colpite dovrebbero essere relative alle aree amministrative e alla produzione con, rispettiva- mente, 4,8 e 1,6 milioni di posti destinati a scomparire. A compensare parzialmente tali perdite sarà, invece, la crescita nelle assunzioni nell’area finanziaria, nel management, nell’It e nell’ingegneria.
Appare evidente, dunque, che se l’innovazione digitale dei processi industriali è in rapida evoluzione, le competenze e le abilità richieste ai futuri assunti dovranno fare altrettanto. Occorre, quindi, che il Paese predisponga tutti i mezzi necessari per cogliere appieno i benefici della quarta rivoluzione industriale, attuando iniziative sistemiche non solo per l’adozione e lo sviluppo di sistemi di smart manufacturing, ma anche fornendo ai lavoratori le competenze digitali necessarie per svolgere proficuamente le future mansioni. Industry 4.0, prima ancora che porre una questione del come sviluppare il grado tecnologico dell’impresa, impone riflessioni sul come sviluppare una cultura e delle competenze per fare impresa in modo diverso.
A ben vedere, gran parte del ritardo di innovazione digitale in Italia può essere ricondotta alla mancanza o al disallineamen- to delle competenze professionali di chi attualmente fa parte del mondo del lavoro e di chi inizierà a farne parte nei prossimi anni. Un piano per la crescita delle competenze digitali della forza lavoro, ponderato e organico, dovrebbe essere un pilastro delle politiche di digitalizzazione del Paese, ben più di quanto a oggi indicato nel Piano Industria 4.0. Il piano dovrebbe essere indirizzato, da una parte, a fornire alle imprese (soprattutto le Pmi) e alla Pa strumenti di aggiornamento della forza lavoro e di ricollocamento assistito volti a colmare i gap formativi rispetto alle nuove tecnologie; dall’altra, a creare un sistema scuola-impresa realmente integrato, che superi interventi spesso settoriali o locali, per promuovere centri di formazione finalmente efficienti in una logica di placement successivo al termine degli studi.
In sintesi, più che a rivoluzionare il processo industriale si dovrebbe pensare a creare la cultura dell’industrializzazione del processo, investendo sulle persone che tali macchinari saranno chiamate a far funzionare. E tale investimento non può che passare attraverso una scuola più moderna e percorsi universitari e formativi volti a creare (o ri-creare) figure professionali più coerenti con ciò che il mondo del lavoro oggi chiede.