Giustizia di comunità che riabilita i detenuti
Il principio di giustizia riparativa, benché sancito nella Costituzione e posto a cardine del percorso di riabilitazione del condannato, non ha fin qui trovato facile applicazione per chi deve scontare una pena nelle nostre carceri. I problemi cronici della giustizia, evidenziati anche recentemente in occasione della presentazione al Parlamento della relazione annuale del Garante dei detenuti, rappresentano un ostacolo anche rispetto alla diffusione delle misure riparative, quali possono essere l’impiego in lavori di pubblica utilità o la prestazione volontaria in alternativa alla reclusione. Segnali decisamente più incoraggianti giungono dall’istituto della messa alla prova, previsto per alcuni reati di minore allarme sociale e applicato con crescente intensità.
Tutte queste misure hanno in comune il presupposto di una attiva compartecipazione della “società civile” ai percorsi di riabilitazione. Ed è soprattutto il volontariato organizzato a rispondere positivamente, con esempi virtuosi. Uno di questi giunge da Verona, dove il Centro di servizio per il volontariato, già dal 2011, ha attivato una collaborazione con il tribunale per favorire l’adozione di misure giudiziarie “di comunità”. All’inizio l’intesa prevedeva unicamente la possibilità, da parte del condannato, di commutare la pena detentiva in ore di lavoro socialmente utile. Era un progetto sperimentale, con 11 realtà non profit disposte all’accoglienza, per un totale di 14 posti. In pochi anni, però, le richieste si sono moltiplicate così che, nel 2016, le organizzazioni “accoglienti” sono diventate 53, di cui 34 associazioni di volontariato, due cooperative, 15 enti di promozione sociale, una fondazione e un’impresa sociale. Il dato è più che raddoppiato rispetto al 2015 e quadruplicato rispetto agli esordi. Sono molto aumentate anche le persone che, nello scorso anno, hanno effettuato attività socialmente utili: il loro numero è, infatti, salito a 197, per un totale di 11.443 ore di servizio.
Gli ambiti spaziano dal settore socio-sanitario e assistenziale alla tutela dell’ambiente, dal campo culturale alla protezione civile, fino alla cooperazione internazionale. Nella graduatoria dei lavori svolti presso le associazioni figura al primo posto il supporto a disabili e anziani, seguito dai servizi di manutenzione, giardinaggio, pulizie e mensa. Ma ci sono anche condannati che svolgono lavori di segreteria, aggiornamento di siti web, inserimento dati su supporti informatici, laboratori creativi.
Il bilancio presentato dal Csv di Verona, da quello di Padova e analoghe buone pratiche in atto in altre province, tra cui Genova, Como e Bologna, hanno indotto il Csvnet, organismo di coordinamento nazionale dei Centri di servizio, a predisporre una mappatura nazionale del fenomeno.
«L'esperienza che il condannato si trova a svolgere è di alto valore umano – spiega Chiara Tommasini, presidente del Csv Verona -, perché avviene all’interno di quelle stesse organizzazioni che ogni giorno si occupano, nei rispettivi ambiti, di alimentare e sostenere una cittadinanza attiva. La riabilitazione è quindi doppia: da una parte, viene saldato il debito con la giustizia attraverso l’attività gratuita a favore della collettività; dall’altra, la conoscenza ravvicinata del volontariato lascia un segno che, in molti casi, porta gli ex detenuti a un coinvolgimento diretto nella vita associativa anche dopo aver scontato la pena».
«Chi si propone – aggiunge Irene Magri, che nel Csv veronese segue le pratiche relative alla giustizia di comunità – può appartenere a due categorie di persone: condannati in via definitiva, che hanno ottenuto la misura dell’affidamento in prova, oppure imputati che, attraverso l’istituto della messa alla prova, possono ottenere la sospensione del giudizio. In ogni caso le organizzazioni sono libere di accettare o meno l’inserimento, in base alla propria missione e alle modalità organizzative». Non a caso, proprio l’orientamento e l’allineamento dei candidati alle finalità dei singoli enti non profit costituisce l’impegno maggiore dei Centri di servizio, che svolgono il ruolo di facilitatori tra domanda e offerta.
«Il nostro supporto continua anche al termine degli affidamenti - ricorda la Tommasini -. Finora il bilancio è positivo per oltre il 90% dei casi e la cosa che maggiormente ci colpisce non è tanto l’aumento delle domande, quanto la risposta del volontariato, che riesce a trovare in queste forme di coinvolgimento atipiche nuove energie per allargare il proprio radicamento territoriale».