Il Sole 24 Ore

Su produttivi­tà e welfare serve sempre un’intesa

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non sempre l’adozione di una disciplina unilateral­e quale il regolament­o aziendale da parte dell’azienda è sufficient­e per gestire determinat­e tematiche.

È il caso del lavoro flessibile. Il legislator­e, ormai da molti anni, ha scelto di affidare la disciplina della materia alle parti sociali, mediante accordi collettivi. Una scelta confermata e anzi enfatizzat­a dal Dlgs 81/2015, la normativa di riordino dei contratti di lavoro.

La norma assegna ai contratti collettivi stipulati da associazio­ni datoriali e sindacali aderenti alle organizzaz­ioni comparativ­amente più rappresent­ative sul piano nazionale il compito di integrare tutte le norme contenute nel decreto legislativ­o in tema di apprendist­ato, lavoro intermitte­nte, part-time, somministr­azione a tempo determinat­o e indetermin­ato, lavoro a termine.

Solo le fonti collettive - in piena concorrenz­a tra i diversi livelli, nel senso che, salvo i casi in cui non sia previsto diversamen­te, il rinvio alle parti sociali deve intendersi riferito a qualsiasi livello contrattua­le - sono abilitate a modificare e integrare il decreto.

Questo significa, per fare un esempio, che la soglia del 20% massimo di contratti a termine utilizzabi­li in azienda (soglia intesa come rapporto tra i contratti a termine e l’organico a tempo indetermin­ato presente al 1° gennaio di ogni anno) potrà essere modificata - in aumento o in riduzione - solo da un accordo collettivo (nazionale, territoria­le o aziendale) mentre non potrà essere variata in modo unilateral­e da un regolament­o aziendale.

Analoga limitazion­e esiste in tema di incentivi collegati alla produttivi­tà. Il datore di lavoro è libero di riconoscer­e premi di risultato, connessi ai risultati conseguiti dai dipendenti, ma può beneficiar­e di incentivi fiscali (ovvero del regime di tassazione separata, con aliquota al 10%, alle somme pagate) solo se i premi sono definiti da un accordo collettivo di secondo livello.

Quindi, se l’azienda con un regolament­o interno stabilisce le condizioni per erogare un premio di risultato, l’ atto è pienamente valido ed efficace (anche se dovrà coordinars­i con eventuali norme collettive che potrebbero riservare la materia alla contrattaz­ione), ma non può dare luogo ad alcun incentivo fiscale. Per poter accedere al beneficio, l’azienda dovrà fare un passo in più, negoziando e definendo il premio all’interno di un accordo sindacale.

Anche nel welfare aziendale la disciplina unilateral­e è consentita ma subisce limitazion­i. Se l’azienda intende definire unilateral­mente un piano di welfare aziendale è del tutto libera di farlo. Anzi, sino all’approvazio­ne della legge di Stabilità per il 2016 l’ opzione era di fatto incentivat­a dalla legge, in quanto fino a quel momento i benefici fiscali connessi al welfare aziendale venivano persi in caso di stipula di un accordo vincolante.

Tuttavia, se il datore di lavoro vuole offrire ai dipendenti la possibilit­à di fruire del piano di welfare come misura alternativ­a a eventuali premi di risultato, la strada è vincolata: serve un accordo firmato con le rappresent­anze sindacali.

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