Il Sole 24 Ore

Riad serra le fila dell’Opec per sostenere i prezzi del barile

- Balduino Ceppetelli

Iprezzi del petrolio, nonostante le oscillazio­ni al ribasso di ieri, sono in lenta ripresa, ma il timore di una nuova ondata di ribassi trainata dall’abbondanza dell’offerta sta spingendo l’Arabia Saudita a chiamare a raccolta i Paesi Opec - più o meno tutti alle prese con problemi di bilancio - a estendere per altri sei mesi il piano di tagli produttivi (il primo dopo otto anni). Una decisione al riguardo verrà presa in maggio durante il prossimo incontro Opec. Ora come ora, e dopo lo scetticism­o iniziale, i Paesi membri del cartello - appoggiati da un folto gruppo di nazioni esterne all’Opec, tra cui la Russia - hanno rispettato in pieno (anzi, hanno fatto qualcosa in più) gli impegni presi, ossia di ridurre complessiv­amente la loro produzione di 1,8 milioni di barili. E l’effetto sui prezzi si è fatto sentire: il Brent è salito in dodici mesi (ossia dal momento dell’accordo Opec) da circa 42 a circa 56 dollari al barile. Tu t t o c i ò evidenteme­nte non basta (le variabili in campo sono sempre tante e imprevedib­ili). Il timore di un’abbondanza dell’offerta resta elevato, complice anche la crescente produzione Usa. E ciò nonostante questa fase sia caratteriz­zata da molti elementi di marca rialzista per i prezzi, tra cui le rinnovate preoccupaz­ioni per un’esc alation della tensione in Medio Oriente dopo il raid americano in Si r i a . Partiamo dall’Opec. Il Cartello in marzo ha abbassato oltre i limiti prefissati la produzione: 31,93 milioni di barili al giorno (mbg). Quasi tutti hanno messo il freno alle estrazioni. L’Arabia Saudita invece le ha aumentate (+42mila bg), ma resta sempre al di sotto della propria quota di 10 mbg. La Russia ha appena dichiarato che taglierà l’output di 300mila bg entro fine mese. In Libia poi i problemi sono tutt’altro che finiti: le estrazioni sono appena scese del 30% a 490mila bg a causa dello stop produttivo nei giacimenti di Sharara. Il paese nordafrica­no prima dell’inizio dei tanti conflitti interni estraeva greggio al ritmo di 1,6 mbg. Le scorte mondiali sono poi in flessione un po’ ovunque, tranne che negli Usa dove, nonostante l’inatteso calo registrato la scorsa settimana (-2,2 milioni di barili per il greggio e -3 milioni di barili per le benzine), gli stock sono ancora vicini ai recentissi­mi livelli record di 535,5 milioni di barili (stime Eia). Sempre negli Usa poi in molti (soprattutt­o grandi investitor­i, hedge fund su tutti) scommetton­o su una rapida impennata dei consumi trainati dalla domanda di benzine con l’avvicinars­i della cosiddetta driving season (l’inizio dell’estate coincide in genere con un picco delle richieste di carburanti per autotrazio­ne).

Per contro a raffreddar­e gli entusiasmi contribuis­cono le deludenti previsioni sulla crescita della domanda mondiale (meno brillante del previsto) e il rapido aumento della produzione soprattutt­o per quanto riguarda lo shale oil americano. L’altro ieri Washington ha alzato le stime sulla propria produzione (fino a 9,2 mbg quest’anno e a 9,9 nel 2018, dopo gli 8,9 mbg del 2016), e abbassato quelle sui prezzi del Wti: per il 2017 da 53,49 a 52,24 dollari al barile e per il 2018 da 56,18 a 55,10 dollari.

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