Pechino e la paura di una riunificazione delle due Coree
La prima telefonata di Xi Jinping a Donald Trump dopo il loro incontro a Mar-a-Lago evidenzia le preoccupazioni cinesi per la rotta di collisione verso cui sembrano indirizzarsi due personaggi poco prevedibili come il presidente americano e il leader nordcoreano Kim Jong Un.
Il suo appello alla calma e a una risoluzione pacifica della controversia - e l’invito a una stretta comunicazione e coordinamento - segnala una sorta di “pazienza strategica” di Pechino verso atteggiamenti e tweet di Trump al limite dello sgarbo diplomatico, ma anche una chiara presa di posizione: «La Cina resta impegnata verso l’obiettivo della denuclearizzazione della penisola coreana, la salvaguardia della pace e della stabilità nella penisola, e promuove la risoluzione dei problemi attraverso mezzi pacifici», come ha detto Xi a Trump secondo quanto riportato dai media cinesi. Le sollecitazioni a Pechino del presidente a premere con forza su Pyongyang – anche agitando incongruamente la carota di una intesa commerciale bilaterale eventualmente più vantaggiosa – incontra il limite consueto della contrarietà agli interessi strategici cinesi di un collasso del regime del Nord.
Un crollo della dinastia Kim comporterebbe il doppio rischio di masse di rifugiati e di una riunificazione coreana sotto l’egida di una Seul alleata degli Usa: difficile pensare che gli americani se ne vadano, anche se verrebbe meno la ragione storica della loro presenza. In questo scenario, la Cina sta facendo passi avanti verso una linea un po’ più dura verso Pyongyang (ad esempio con l’interruzione dell’import di carbone) e i media cinesi sono insolita- mente espliciti nel suggerire che Pyongyang debba astenersi da nuovi test bellici, ventilando un qualche inasprimento delle sanzioni se non si asterrà dal «commettere errori». Ma è assai improbabile che Pechino si possa spingere fino al punto di mettere in ginocchio il regime del Paese confinante. Kim ha già danneggiato gli interessi cinesi con le sue provocazioni missilistico-nucleari: basti pensare al dispiegamento in corso del sistema antimissilistico americano THAAD nella penisola. Con la tensione alle stelle degli ultimi giorni, anche i due candidati presidenziali favoriti a Seul – Moon Jae-in e Ahn Cheol-soo - hanno fatto marcia indietro su precedenti dichiarazioni secondo cui avrebbero potuto riconsiderare il THAAD. Così Pechino diventa alfiere non solo della pace ma anche di un valore tradizionale della diplomazia come quello della stabilità. E pone un altolà a idee che il Consiglio Nazionale per la Sicurezza Usa ha posto sul tavolo del presidente, come quella di riportare dopo un quarto di secolo testate nucleari tattiche nella penisola.
Sulla Siria, Xi ha concesso «l’inaccettabilità» dell’uso di armi chimiche, ma sottolineato anche il ruolo primario del Consiglio di Sicurezza Onu. Con l’entusiasmo manifestato per la potente «armada» che fa rotta sui mari dell’Asia nordorientale a minacciare Pyongyang – alla quale, secondo le ultime voci, si uniranno lungo il percorso anche navi militari giapponesi -, Trump finisce per apparire come un destabilizzatore, il che comincia a preoccupare i mercati finanziari. Grazie a lui la Cina – già promossa da inquinatrice ad ambientalista, da protezionista a liberoscambista – si accredita con la voce della ragione, della calma e del diritto internazionale.