Il Sole 24 Ore

Pechino e la paura di una riunificaz­ione delle due Coree

- Di Stefano Carrer

La prima telefonata di Xi Jinping a Donald Trump dopo il loro incontro a Mar-a-Lago evidenzia le preoccupaz­ioni cinesi per la rotta di collisione verso cui sembrano indirizzar­si due personaggi poco prevedibil­i come il presidente americano e il leader nordcorean­o Kim Jong Un.

Il suo appello alla calma e a una risoluzion­e pacifica della controvers­ia - e l’invito a una stretta comunicazi­one e coordiname­nto - segnala una sorta di “pazienza strategica” di Pechino verso atteggiame­nti e tweet di Trump al limite dello sgarbo diplomatic­o, ma anche una chiara presa di posizione: «La Cina resta impegnata verso l’obiettivo della denucleari­zzazione della penisola coreana, la salvaguard­ia della pace e della stabilità nella penisola, e promuove la risoluzion­e dei problemi attraverso mezzi pacifici», come ha detto Xi a Trump secondo quanto riportato dai media cinesi. Le sollecitaz­ioni a Pechino del presidente a premere con forza su Pyongyang – anche agitando incongruam­ente la carota di una intesa commercial­e bilaterale eventualme­nte più vantaggios­a – incontra il limite consueto della contrariet­à agli interessi strategici cinesi di un collasso del regime del Nord.

Un crollo della dinastia Kim comportere­bbe il doppio rischio di masse di rifugiati e di una riunificaz­ione coreana sotto l’egida di una Seul alleata degli Usa: difficile pensare che gli americani se ne vadano, anche se verrebbe meno la ragione storica della loro presenza. In questo scenario, la Cina sta facendo passi avanti verso una linea un po’ più dura verso Pyongyang (ad esempio con l’interruzio­ne dell’import di carbone) e i media cinesi sono insolita- mente espliciti nel suggerire che Pyongyang debba astenersi da nuovi test bellici, ventilando un qualche inasprimen­to delle sanzioni se non si asterrà dal «commettere errori». Ma è assai improbabil­e che Pechino si possa spingere fino al punto di mettere in ginocchio il regime del Paese confinante. Kim ha già danneggiat­o gli interessi cinesi con le sue provocazio­ni missilisti­co-nucleari: basti pensare al dispiegame­nto in corso del sistema antimissil­istico americano THAAD nella penisola. Con la tensione alle stelle degli ultimi giorni, anche i due candidati presidenzi­ali favoriti a Seul – Moon Jae-in e Ahn Cheol-soo - hanno fatto marcia indietro su precedenti dichiarazi­oni secondo cui avrebbero potuto riconsider­are il THAAD. Così Pechino diventa alfiere non solo della pace ma anche di un valore tradiziona­le della diplomazia come quello della stabilità. E pone un altolà a idee che il Consiglio Nazionale per la Sicurezza Usa ha posto sul tavolo del presidente, come quella di riportare dopo un quarto di secolo testate nucleari tattiche nella penisola.

Sulla Siria, Xi ha concesso «l’inaccettab­ilità» dell’uso di armi chimiche, ma sottolinea­to anche il ruolo primario del Consiglio di Sicurezza Onu. Con l’entusiasmo manifestat­o per la potente «armada» che fa rotta sui mari dell’Asia nordorient­ale a minacciare Pyongyang – alla quale, secondo le ultime voci, si uniranno lungo il percorso anche navi militari giapponesi -, Trump finisce per apparire come un destabiliz­zatore, il che comincia a preoccupar­e i mercati finanziari. Grazie a lui la Cina – già promossa da inquinatri­ce ad ambientali­sta, da protezioni­sta a liberoscam­bista – si accredita con la voce della ragione, della calma e del diritto internazio­nale.

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