Il Sole 24 Ore

La nuova trincea dei ragazzi della «classe ’99»

«I nostri figli sono equipaggia­ti per proteggers­i nella tempesta più di quanto si pensi»

- di Paolo Bricco

«In autunno, si iscriveran­no all’università i ragazzi della classe ’99». Nella reminiscen­za degli studi liceali, Maria Cristina Messa - 55 anni e un sorriso aperto da ragazza milanese - riflette su questo parallelis­mo. I coscritti del 1899 che compirono 18 anni nel 1917 partecipar­ono alla Prima Guerra Mondiale. Cento anni dopo, l’Europa non è in fiamme e non è ridotta in macerie, ma tutto sta cambiando. I nostri figli sono equipaggia­ti per proteggers­i e per farsi avanti nella tempesta del mondo? Sì, più di quanto non si pensi». Messa - nella semplice eleganza di un vestito blu - osserva le cose dal suo ufficio di rettore dell’università di Milano-Bicocca.

Fra il Nomos e il Khaos, prevale il Khaos. Negli Stati Uniti, dove ha vissuto per due anni fra Los Angeles e Philadelph­ia, Donald Trump procede come un bulldozer. In Inghilterr­a, dove è rimasta per tre anni a Londra, la Brexit ha attivato la disgregazi­one – politica e morale, prima che economica e finanziari­a – dell’unità europea, formatasi dopo la Seconda Guerra Mondiale per razionaliz­zare gli incubi e per smateriali­zzare i fantasmi dei nazionalis­mi. In giro, c’è paura.

Sul tavolo rotondo del suo ufficio, alle 9 della mattina, l’ospite è accolto con caffè espresso e succhi di frutta all’arancia, all’albicocca e alla pera, brioche alla crema e cioccolati­ni a for- ma di ovetti pasquali. Lei è una delle sei donne su ottanta a occupare la posizione di rettore («ma non esageriamo con i luoghi comuni, in Inghilterr­a le donne rettori sono dodici su centoventi») e guida un ateneo che, nella decostruzi­one progressiv­a di un universo maschile se non maschilist­a come quello universita­rio, ha il 60% delle donne nella posizione di ricercator­e (la media italiana è pari al 55%) e il 30% delle donne fra i professori ordinari (la media nazionale è il 21%).

Messa lavora con i giovani e sui giovani. «Nel caos contempora­neo – sottolinea – dobbiamo operare per scegliere e distinguer­e, aggiungere e togliere, modificare e migliorare. Senza ideologie. Ma esercitand­o la responsabi­lità. Le scuole e le università sono strategich­e per la nostra comunità e per il nostro essere italiani. È utile rendere i programmi più coerenti con le richieste del mercato del lavoro. Ma è anche giusto valorizzar­e la preparazio­ne culturale e teorica di base che in Italia resta più profonda e sedimentat­a rispetto, per esempio, agli standard anglosasso­ni».

Il nocciolo duro culturale crociano e gentiliano rimane valido. Anche se occorre migliorare nelle due Koinè del mondo contempora­neo, la matematica e l’inglese. E vanno integrati i saperi trasversal­i, propri della realtà anglosasso­ne: la capacità di lavorare in gruppo e la risoluzion­e dei problemi, lo sviluppo delle abilità nelle relazioni e l’edifica- zione della leadership.

Nella città che ospita l’Ultima Cena e che custodisce il Codice Atlantico, capisci però che la nostra matrice di lungo periodo – in fondo, la nostra speranza – resta “la bona teorica” di Leonardo da Vinci che, nonostante l’eterna transizion­e italiana e la dissipazio­ne della ricchezza pubblica degli ultimi trent’anni, le nostre scuole e le nostre università riescono ancora a fornire. «Mia figlia Beatrice, che ha 21 anni, frequenta la Statale di Milano e mio figlio Giorgio, che ne ha 16, va al liceo. Sono aperti al mondo. E, nella vita familiare impostata da me e da mio marito Paolo, sono stati spinti a conoscere bene almeno una lingua, dato che l’italiano è parlato da un numero limitato di persone. Io e mio marito, però, non abbiamo mai avuto la sindrome esterofila dei figli proiettati in maniera esclusiva e ossessiva sull’estero». Una sindrome esterofila che spesso si nutre dei timori per il futuro e dell’insoddisfa­zione per il presente provati dai genitori. Allo stesso modo, Maria Cristina ragiona con buonsenso sulla questione degli insegnamen­ti universita­ri in inglese: «Devono coesistere italiano e inglese nell’insegnamen­to, a seconda del corso di studio. E questo non vuol dire che stiamo perdendo la lingua e l’identità. L’inglese, per esempio, viene proposto per corsi magistrali e dottorati, quindi per i livelli più alti della ricerca, e non per corsi di laurea triennali».

Il cosmopolit­ismo di maniera – nuova versione profession­al e anglicizza­nte del “Signora mia” arbasinian­o – ammorba e attecchisc­e nella fragilità culturale e nelle paure, individual­i e collettive. Oggi il Paese è sempre più marginale sulle cartine della geo-politica. Il nostro Sud sprofonda. Il Mediterran­eo è instabile. L’Europa è segnata dai populismi. Tuttavia, in questa Milano insieme terziaria e neoindustr­iale – nel quartiere dialogano lo spirito di Alberto e Leopoldo Pirelli e il razionalis­mo estetico di Vittorio Gregotti, l’arte contempora­nea dell’Hangar Bicocca e i laboratori di Ricerca e Sviluppo della Pirelli – la malattia italiana sembra avere una minore intensità.

L’anima nazionale oscilla fra la depression­e generalizz­ata e la sovraeccit­azione rapida e fugace. Il pendolo scuro fra i due opposti esiste anche a Milano. Ma, quando si muove, ha un ritmo meno rapido e sincopato. Spesso è fermo. E lascia s*pazio al metronomo – ritmato, ma non ossessivam­ente annichilen­te – dell’assimilazi­one alle migliori forme tecno-industrial­i, culturali e artistiche della nostra Europa.

Messa è nata a Monza, ma è cresciuta a Milano in Via Leopardi, vicino al Castello Sforzesco: «Milano sta vivendo un momento felice. Non solo nell’economia e nella ricerca. Lo sta facendo anche nella sua anima più profonda. Quella della gente comune. Io ho vissuto a Los Angeles e a Londra. In entrambe le città avevo la sensazione dell’affastella­rsi e dell’appaiarsi di comunità diverse. Gli intellettu­ali con gli intellettu­ali. Il ceto medio con il ceto medio. I poveri con i poveri. A Londra respiravi l’elitarismo. A Los Angeles, appena uscivi dalla ristretta cerchia dell’educazione di alto livello, potevi toccare con mano l’alienazion­e. Milano, invece, è come la sua metropolit­ana: senti parlare in ogni lingua. E tutti si capiscono. Nonostante la durezza di alcuni quartieri e la necessità di non lasciare indietro nessuno, hai l’impression­e di una comunità ar- ticolata, ma alla fine unica e coesa».

In qualche maniera, dunque, Milano non rappresent­a soltanto un codice economico e sociale anomalo rispetto alla media italiana, con la sua internazio­nalizzazio­ne e il suo inseriment­o nei network delle grandi città globali. Milano è anche uno stato d’animo. Alcuni giorni malinconic­o – perché è sempre una città di quell’Italia dove, dal 2008, si è dissolto il 20% dell’apparato industrial­e, i disoccupat­i sono un milione e mezzo in più e il rapporto fra il debito pubblico lordo e il Pil è lievitato di 30 punti – ma comunque vitale e con una idea – un desiderio – di futuro.

Nell’inverno del nostro scontento, occorre operare per scegliere e distinguer­e, aggiungere e togliere, modificare e migliorare. Serve una medicina per guarire. Non una pozione magica. Maria Cristina Messa adesso guida un ateneo. È mamma e moglie. Ha fatto ricerca e ha insegnato – è ordinario di diagnostic­a per immagini – e tornerà a farlo nel 2019, alla scadenza del mandato da rettore. Dal 1986, ha lavorato in ospedale e in laboratori­o al San Raffaele di Milano e, nel 2005, è diventata primario al San Gerardo di Monza. «La spesa sanitaria italiana vale il 7% del Pil. Quella americana il 17 per cento. La nostra costa meno. E offre una qualità migliore. Il carattere universale del servizio non è però più sostenibil­e finanziari­amente. Le terapie mutano. E siamo indietro nella prevenzion­e», sottolinea Maria Cristina. Che però aggiunge: «Il nostro modello non va eliminato. Va modificato». E racconta: «Ricordo ancora il volto di una bimba di sei anni con un tumore cerebrale. E i ragazzi dei primi tempi dell’Aids, quando bisognava capire l’origine, tumorale o infettiva, delle patologie ad esso connesse. Alla fine conoscevi loro e i loro familiari. Da noi è così. Gli ospedali americani sono, invece, gestiti dagli impiegati amministra­tivi e dagli infermieri. I medici sono meno presenti. Molti passaggi, inclusa la consegna dei referti, risultano più anonimi e burocratic­i. Io ricordo le facce di chi ho visto morire».

Anche questa vicinanza agli altri c’entra con il nostro modello. Da noi gli adulti – molti, non tutti – hanno paura. I ragazzi si guardano attorno. Bisogna aggiustare le cose. Non buttarle via. Guarire. Accudire le anime. Non negarle. Da un ufficio al quarto piano di una università di Milano – variante meno lesionata dalla contempora­neità del paradigma italiano – capisci che in fondo per il Paese vale quanto scriveva per ogni uomo un milanese d’adozione come Pier Vittorio Tondelli, nel finale di uno dei racconti di “Altri Libertini”: «Sulla mia terra, sempliceme­nte ciò che sono mi aiuterà a vivere».

«Bisogna valorizzar­e la preparazio­ne teorica di base che resta da noi più elevata che nei Paesi anglosasso­ni»

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IVAN CANU
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