Il Sole 24 Ore

Cristiani ed ebrei fratelli nella Pasqua

- Di Bruno Forte

Igiorni della Pasqua, scanditi come sono per i cristiani da liturgie ricche di segni, fanno risaltare in modo particolar­mente intenso il debito che il cristianes­imo ha nei confronti dell’ebraismo e la continuità, nella pur radicale novità, che c’è fra la fede dei patriarchi e dei profeti del primo Testamento e quella in Gesù Cristo, testimonia­ta dal Nuovo Testamento.

Cogliere questi legami – come ad esempio ha fatto per vari aspetti del mistero celebrato l’ebrea cristiana di origine russa Rina Geftman nel suo bel libro «L’offerta della sera» (Piemme, 1994) – aiuta non solo a conoscere ed amare la ricchezza dell’universo ebraico, ma anche a meglio comprender­e e valorizzar­e la tradizione cristiana, a partire proprio da quell’atto “culmine e fonte” dell’intero vissuto della fede, che è la liturgia eucaristic­a, memoriale della Pasqua del Signore.

È in questa luce che vorrei offrire un piccolo contributo alla comprensio­ne degli eventi pasquali, rivolto a credenti e non credenti, presentand­o qui di seguito la Lettera a un amico ebreo, che apre il mio libro «La santa radice. Fede cristiana ed ebraismo» (Editrice Queriniana), appena pubblicato. Facendo tesoro di tanti legami di amicizia che mi legano al mondo ebraico e arricchito dall’esperienza che faccio ormai da diversi anni nella Commission­e Mista Internazio­na- le fra la Chiesa Cattolica e il Gran Rabbinato d’Israele, ho provato ad esprimere così i sentimenti che mi animano in questo cammino di conoscenza e di dialogo: «Come dirTi la mia vicinanza, fratello Ebreo, mio e nostro ’fratello maggiore’? Ciò che è successo al cuore del XX secolo, le tante forme di emarginazi­one e persecuzio­ne subite dal Tuo popolo, la violenza assurda di cui è stato vittima per il solo fatto di custodire la sua identità e di professare la sua appartenen­za religiosa nella tragedia inumana della Shoah, sono ferite che toccano il mio cuore non meno che il Tuo. Penso agli spettri che il folle genocidio evoca nelle vene antiche del Tuo sangue ebreo, alle paure ancestrali che resuscita in Te: e ne soffro con Te, avvertendo in più il dolore e la vergogna del fatto che quelli che hanno compiuto questo gesto potrebbero rivendicar­e l’esempio di quei cristiani che nella storia hanno agito così verso di Te e il Tuo popolo. Chiedere perdono di questo passato vuol dire anche tenerne viva la memoria, perché mai più ritorni la barbarie: lo ha fatto per noi tutti un uomo giusto, il Papa Giovanni Paolo II. Ma sentiamo di doverci fare carico tutti e sempre nuovamente di questa ’purificazi­one della memoria’, soprattutt­o davanti a episodi che purtroppo di quando in quando avvengono, ravvivando la ferita antica e suscitando il bisogno di un impegno rinnovato, corale, per fermare in tempo la stupidità e l’accecament­o dei nuovi barbari.

Vorrei dirTi che Ti sono vicino come chi si riconosce radicato nella fede del Tuo popolo, quella fede d’Israele, che l’Apostolo Paolo chiama ’santa radice’ della Chiesa (Rm 11,16). Colpire un Ebreo è colpire al cuore il cristianes­imo stesso, che è tale solo se confessa come suo Signore Gesù di Nazaret, ebreo ed ebreo per sempre. Il mio augurio è che il sussulto di sdegno provocato da quanto è accaduto nella Shoah, la Catastrofe, serva almeno a ricordare questo ai troppi cristiani sonnecchia­nti e ignoranti davanti al mistero d’Israele, parte viva della nostra fede.

Un antico detto rabbinico afferma che quando Dio creò l’universo di dieci misure di bellezza, nove le diede a Gerusalemm­e e una al resto del mondo; di dieci misure di sapienza, nove le diede a Gerusalemm­e e una al resto del mondo; di dieci misure di dolore, nove le diede a Gerusalemm­e e una al resto del mondo.

Sentimi vicino, Fratello maggiore, nelle Tue nove misure di dolore, perché io possa sentirmi vicino a Te in quelle nove misure di bellezza e di sapienza, di cui il Grande Codice, che è la Bibbia, ha nutrito e nutre la nostra civiltà e il nostro cuore”. Sappiamo come i contenuti della solenne richiesta di perdono fatta da Giovanni Paolo II nella celebrazio­ne del 12 Marzo 2000 e quelli del testo della Commission­e Teologica Internazio­nale Memoria e riconcilia­zione: la Chiesa e le colpe del passato, che l’aveva preparata, motivandol­a e illustrand­one il senso, siano stati più volte ripresi nel magistero tanto di Benedetto XVI, quanto di Papa Francesco. A loro volta, i giorni della Pasqua e le liturgie di struggente profondità e bellezza, che ne scandiscon­o il cammino, ci invitano a ravvivare il senso di gratitudin­e e d’amore per la ricchezza della tradizione ebraica e il suo apporto al cristianes­imo e alle culture del mondo, per favorire lo sviluppo del rapporto d’amicizia fra cristiani ed ebrei come testimonia­nza e contributo alla crescita di relazioni dialogiche fra tutte le componenti della famiglia umana.

In questa luce, è lo stesso amore verso il popolo ebraico che ci spinge a chiedere ad esso segni inequivoca­bili di rispetto e di condivisio­ne verso il popolo palestines­e, in vista di una pace giusta e duratura per tutti. Anche la formulazio­ne di questo auspicio è un modo per augurare a tutti e ciascuno, nella maniera più vera e profonda, “buona Pasqua”!

Il fatto, poi, che la Pasqua cada sempre in primavera, stagione nella quale la natura, libera dai rigori dell’inverno, si riaccende di luce e di bellezza, è - come avvertono i maestri ebrei - un invito a vivere questa festa come una nuova primavera dello spirito, tempo di libertà e di gioia ritrovate, in cui risuoni per tutti la voce del divino Amato che chiama, accoglie, accompagna: “Àlzati, amica mia, mia bella, e vieni! Perché, ecco, l’inverno è passato… i fiori sono apparsi nei campi, il tempo del canto è tornato” (Cantico dei Cantici, 2,10-12). E l’inverno da lasciare alle spalle è quello di tutte le reciproche esclusioni, come delle paure dell’altro, delle difese e delle strategie messe in atto nei suoi confronti, che sono poi le schiavitù da cui dobbiamo liberarci tutti».

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