A rischio l’idea di «ponte» con l’Europa
La Turchia può scegliere se restare una repubblica parlamentare o scivolare verso un’autocrazia di stampo mediorientale. Deve decidere, sia pure in maniera riluttante, di rimanere nel campo occidentale, oppure imboccare la via orientale del dispotismo come Putin, di cui Erdogan è alleato, o Assad, con il quale un tempo, prima di volerlo abbattere, trascorreva insieme le vacanze. Questa sera la Turchia, storico membro della Nato, potrebbe avere una collocazione assai diversa sulla mappa della geopolitica: non più il “ponte” tra Est e Ovest, come si è spesso ripetuto con una certa pigrizia mentale, ma decisamente immersa nella regione più destabilizzata del mondo.
Il risultato del referendum costituzionale secondo i sondaggi è ancora in bilico e si vota con lo stato d’emergenza, mai revocato dal fallito golpe del 15 luglio scorso. La riforma presidenziale proposta da Erdogan, se verrà approvata, consegna esecutivo, legislativo e giudiziario nelle sue mani: viene di fatto cancellata la separazione dei poteri e la possibilità di togliere il bastone del comando all’uomo forte che potrà guidare il Paese fino al 2034.
Il quarto potere, quello dei media, è già stato annullato con 150 colleghi in prigione, record mondiale, e 16 richieste di ergastolo per i giornalisti. La scure delle purghe si è abbattuta su gulenisti, golpisti e presunti tali: 140mila persone epurate della pubblica amministrazione (insegnanti, giudici, poliziotti, militari), 43mila arresti, 100mila indagati, 800 società seque- strate, insieme a dozzine di giornali, tv e associazioni. I capi del partito curdo Hdp sono tutti in carcere.
La deriva autoritaria ha un risvolto paradossale: per sei anni Erdogan ha cercato di abbattere un brutale autocrate Assad aprendo “l’autostrada della Jihad” ai foreign fighters. Questa mossa, fatta con l’approvazione degli Stati Uniti e di parte dell’Europa, è stata fatale: Ankara invece di avere “zero problemi con i vicini”, secondo l’appassito slogan dell’ex premier Davutoglu, ha importato tutti i problemi del Medio Oriente da cui l’aveva sigillata la repubblica dei militari ereditata da Ataturk.
La Turchia di Erdogan non intendeva esportare la democrazia in Siria ma con gli alleati sunniti sauditi e qatarini sot- tomettere un regime concorrente legato all’Iran sciita e si è trovata immersa nel caos ai suoi confini, al punto che dopo l’intervento della Russia ha dovuto chinare la testa davanti a Mosca e Teheran per contenere l’avanzata dei curdi siriani del Rojava. Un ribaltone per un paese da 70 anni della Nato, appena corretto adesso dai missili di Trump sulla base aerea di Assad.
Se la Turchia è lontana dall’Europa la colpa è di Erdogan ma le responsabilità sono anche americane ed europee. L’obiettivo dell’adesione alla Ue nei primi anni Duemila ha rappresentato uno dei rari momenti di generale consenso nella società turca ma lo schiaffo ricevuto da Francia e Germania ha confermato l’ambiguità europea nei confronti della Turchia: Ankara prima è stata considerata prima come un baluardo contro i sovietici poi come un antemurale delle tragedie mediorientali. Mai però è stata presa in considerazione come un vero partner.
Americani ed europei quindi hanno fatto credere a Erdogan di essere l’attore protago- nista delle primavere arabe: un progetto che lo ha trascinato in errori micidiali, dalla Siria all’appoggio dei Fratelli Musulmani in Egitto.
Pur di vincere la partita, Erdogan ha buttato all’aria l’accordo con i curdi e riaperto il conflitto interno: dal 2015 in Anatolia ci sono stati 2mila morti, più di 500 in tutta la Turchia per il terrorismo, tra attentati dell’Isis e del Pkk, e si contano 500mila rifugiati interni che si aggiungono ai due milioni di profughi siriani con cui Ankara ricatta l’Europa. Che vinca o no il referendum, il leader turco chiederà tutti i soldi promessi da Bruxelles e i visti per la libera circolazione dei cittadini turchi.
Erdogan sta cercando di vestire sempre più i panni dell’esecutore della volontà popolare: dopo avere ventilato un referendum per rimettere la pena di morte, è tornato a proporne un altro sull’adesione all’Unione Europea. È chiaro che la Turchia non entrerà per altri vent’anni, quindi ha dato libero sfogo agli attacchi contro i leader europei che hanno cancellato i comizi dei ministri turchi.
Il Medio Oriente è così penetrato nelle viscere del Paese e nelle sue relazioni con l’Europa e la Nato, da considerare dei partner ma non degli alleati (il 50% del commercio è con l’Europa così come il 70% dei capitali esteri è europeo).
Il risultato che sia per Evet, il “sì”, o per Hayir, il “no”, segna comunque la fine del modello turco, un mix tra conservatorismo religioso, nazionalismo e crescita economica: se Erdogan vince resta un uomo solo al comando, se perde la spirale repressiva non si fermerà.
LA FINE DEL MODELLO TURCO Tra assolutismo o repressione, tramonta il mix di conservatorismo religioso, nazionalismo e crescita economica