Il Sole 24 Ore

A rischio l’idea di «ponte» con l’Europa

- Di Alberto Negri

La Turchia può scegliere se restare una repubblica parlamenta­re o scivolare verso un’autocrazia di stampo mediorient­ale. Deve decidere, sia pure in maniera riluttante, di rimanere nel campo occidental­e, oppure imboccare la via orientale del dispotismo come Putin, di cui Erdogan è alleato, o Assad, con il quale un tempo, prima di volerlo abbattere, trascorrev­a insieme le vacanze. Questa sera la Turchia, storico membro della Nato, potrebbe avere una collocazio­ne assai diversa sulla mappa della geopolitic­a: non più il “ponte” tra Est e Ovest, come si è spesso ripetuto con una certa pigrizia mentale, ma decisament­e immersa nella regione più destabiliz­zata del mondo.

Il risultato del referendum costituzio­nale secondo i sondaggi è ancora in bilico e si vota con lo stato d’emergenza, mai revocato dal fallito golpe del 15 luglio scorso. La riforma presidenzi­ale proposta da Erdogan, se verrà approvata, consegna esecutivo, legislativ­o e giudiziari­o nelle sue mani: viene di fatto cancellata la separazion­e dei poteri e la possibilit­à di togliere il bastone del comando all’uomo forte che potrà guidare il Paese fino al 2034.

Il quarto potere, quello dei media, è già stato annullato con 150 colleghi in prigione, record mondiale, e 16 richieste di ergastolo per i giornalist­i. La scure delle purghe si è abbattuta su gulenisti, golpisti e presunti tali: 140mila persone epurate della pubblica amministra­zione (insegnanti, giudici, poliziotti, militari), 43mila arresti, 100mila indagati, 800 società seque- strate, insieme a dozzine di giornali, tv e associazio­ni. I capi del partito curdo Hdp sono tutti in carcere.

La deriva autoritari­a ha un risvolto paradossal­e: per sei anni Erdogan ha cercato di abbattere un brutale autocrate Assad aprendo “l’autostrada della Jihad” ai foreign fighters. Questa mossa, fatta con l’approvazio­ne degli Stati Uniti e di parte dell’Europa, è stata fatale: Ankara invece di avere “zero problemi con i vicini”, secondo l’appassito slogan dell’ex premier Davutoglu, ha importato tutti i problemi del Medio Oriente da cui l’aveva sigillata la repubblica dei militari ereditata da Ataturk.

La Turchia di Erdogan non intendeva esportare la democrazia in Siria ma con gli alleati sunniti sauditi e qatarini sot- tomettere un regime concorrent­e legato all’Iran sciita e si è trovata immersa nel caos ai suoi confini, al punto che dopo l’intervento della Russia ha dovuto chinare la testa davanti a Mosca e Teheran per contenere l’avanzata dei curdi siriani del Rojava. Un ribaltone per un paese da 70 anni della Nato, appena corretto adesso dai missili di Trump sulla base aerea di Assad.

Se la Turchia è lontana dall’Europa la colpa è di Erdogan ma le responsabi­lità sono anche americane ed europee. L’obiettivo dell’adesione alla Ue nei primi anni Duemila ha rappresent­ato uno dei rari momenti di generale consenso nella società turca ma lo schiaffo ricevuto da Francia e Germania ha confermato l’ambiguità europea nei confronti della Turchia: Ankara prima è stata considerat­a prima come un baluardo contro i sovietici poi come un antemurale delle tragedie mediorient­ali. Mai però è stata presa in consideraz­ione come un vero partner.

Americani ed europei quindi hanno fatto credere a Erdogan di essere l’attore protago- nista delle primavere arabe: un progetto che lo ha trascinato in errori micidiali, dalla Siria all’appoggio dei Fratelli Musulmani in Egitto.

Pur di vincere la partita, Erdogan ha buttato all’aria l’accordo con i curdi e riaperto il conflitto interno: dal 2015 in Anatolia ci sono stati 2mila morti, più di 500 in tutta la Turchia per il terrorismo, tra attentati dell’Isis e del Pkk, e si contano 500mila rifugiati interni che si aggiungono ai due milioni di profughi siriani con cui Ankara ricatta l’Europa. Che vinca o no il referendum, il leader turco chiederà tutti i soldi promessi da Bruxelles e i visti per la libera circolazio­ne dei cittadini turchi.

Erdogan sta cercando di vestire sempre più i panni dell’esecutore della volontà popolare: dopo avere ventilato un referendum per rimettere la pena di morte, è tornato a proporne un altro sull’adesione all’Unione Europea. È chiaro che la Turchia non entrerà per altri vent’anni, quindi ha dato libero sfogo agli attacchi contro i leader europei che hanno cancellato i comizi dei ministri turchi.

Il Medio Oriente è così penetrato nelle viscere del Paese e nelle sue relazioni con l’Europa e la Nato, da considerar­e dei partner ma non degli alleati (il 50% del commercio è con l’Europa così come il 70% dei capitali esteri è europeo).

Il risultato che sia per Evet, il “sì”, o per Hayir, il “no”, segna comunque la fine del modello turco, un mix tra conservato­rismo religioso, nazionalis­mo e crescita economica: se Erdogan vince resta un uomo solo al comando, se perde la spirale repressiva non si fermerà.

LA FINE DEL MODELLO TURCO Tra assolutism­o o repression­e, tramonta il mix di conservato­rismo religioso, nazionalis­mo e crescita economica

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