Il Sole 24 Ore

Il rischio Italia si combatte con l’azione delle riforme

- Lorenzo Codogno l.codogno@lse.ac.uk

Il sentiero per la sostenibil­ità dei conti pubblici si fa sempre più stretto. Lo si percepisce nella chiosa finale dell’introduzio­ne al Documento di Economia e Finanza 2017 (Def). Con un repentino cambiament­o di soggetto, si passa da un governo che parla in prima persona a un’indistinta “Italia”, e con linguaggio sibillino si introduce il vero punto delicato di tutta la strategia: «Una attenta riflession­e sul valore concreto della credibilit­à del Paese appare particolar­mente rilevante alla luce delle aspettativ­e di consenso che vogliono la Bce terminare il proprio programma di acquisti di titoli sovrani entro la fine del 2018. L’Italia non dovrà farsi trovare impreparat­a».

Non sono più le regole fiscali di Bruxelles, tanto contestate. Non è più la lunga diatriba sul potenziale di crescita e l’output gap. Non è più l’estenuante, continua richiesta di flessibili­tà sui conti pubblici. Questa volta la partita è più seria. Ora preoccupa l’ineluttabi­le svolta sui tassi e sugli acquisti di titoli di stato da parte della Bce, e le conseguenz­e che questo potrebbe avere sui mercati finanziari. Il Def aggiunge: «Non vanno sottovalut­ati in prospettiv­a i vincoli stringenti che la finanza pubblica continuerà a fronteggia­re, connessi a una verosimile riduzione degli stimoli monetari, a obiettivi di medio termine che non sono ancora stati raggiunti, agli elevati e diffusi rischi geo-politici».

In questa luce, si giustifica la scelta di seguire diligentem­ente le indicazion­i di Bruxelles per quanto riguarda gli obiettivi di finanza pubblica e quella di introdurre una minimanovr­a di due decimi di punto percentual­e di Pil. Infatti, non è più Bruxelles che bisogna convincere. È in gioco la credibilit­à nei confronti degli investitor­i internazio­nali che dovranno sostituirs­i alla Bce negli acquisti di titoli di stato in presenza di un rapporto debito/Pil elevato e non ancora in riduzione.

Se comprendia­mo l’importanza di questo punto, tutto il resto passa in second’ordine.

Il profilo di crescita economica è rimasto ispirato a principi di prudenza. Ma poi un po’ di cucina interna non guasta, quindi il deflatore del Pil è un po’ “tirato per i capelli”. Il 2016 è stato il secondo anno di seguito nel quale la dinamica del deflatore del Pil, grazie al crollo dei prezzi all’importazio­ne, è risultata nettamente al di sopra di quella dei prezzi al consumo, aiutando dunque la crescita nominale del Pil e l’andamento del rapporto debito/Pil. Difficilme­nte il deflatore si riposizion­erà all’1,7% già dal 2018 come ipotizzato nel documento.

Ma queste sono sottigliez­ze. Più preoccupan­te è invece la tendenza della spesa. Le uscite totali al netto degli interessi sono passate dal 41,8% del Pil nella media del 2007 al 45,5% nel 2016 (fonte Istat, dati non citati nel Def). L’indebitame­nto netto è passato sì dal 2,9% del Pil del 2012 al 2,4% del 2016, ma il saldo primario, al netto cioè della spesa per interessi, si è ridotto passando dal 2,3% all’1,5%. In sostanza, al netto della riduzione della spesa per interessi, i conti pubblici sono peggiorati. Per il futuro, il governo ipotizza un aumento drastico del saldo primario al 3,8% nel 2020. Buona parte di questo migliorame­nto sembra esser già presente nel quadro tendenzial­e, ovvero dovrebbe avvenire senza manovre aggiuntive. Si realizzerà?

Grazie alla vita media molto lunga del debito pubblico la spesa per interessi è prevista continuare a scendere sino al 2019, ma poi inevitabil­mente questa risalirà in linea con l’andamento dei tassi d’interesse. In questo senso l’Italia «non dovrà farsi trovare impreparat­a». In sostanza dovrà ridurre la spesa primaria corrente in modo da proiettare uno stabile sentiero di riduzione nel rapporto debito/Pil. Nel documento si dice: «Il tasso di crescita nominale sarebbe infatti prossimo al costo implicito di finanziame­nto del debito pubblico in tutto il triennio 2018-2020». Ma questo non basta!

Peraltro la proiezione si basa sull’ipotesi di una drastica riduzione dell’indebitame­nto netto dal 2,1% del 2016 all’1,2% del 2017, senza manovre restrittiv­e. Ma nella prossima legge di bilancio il governo dovrà sostituire le clausole di salvaguard­ia che valgono ben 1,1 punti percentual­i di Pil.

Sarebbe quindi doppiament­e importante agire anche sul denominato­re del rapporto debito/Pil, cioè sulla crescita economica. È difficile dissentire sulle priorità di riforma individuat­e nel Def. Se questo governo di fine legislatur­a riuscisse effettivam­ente a rispettare tutte le promesse del documento sarebbe un grosso risultato. Ma qualche dubbio è legittimo. Le riforme senza impatto sui conti pubblici (o quasi) sono state un po’ abbandonat­e. Non si capisce, ad esempio, come l’unica legge annuale sulla concorrenz­a introdotta negli ultimi anni, già ampiamente annacquata in Parlamento, attenda ancora la sua approvazio­ne finale, o perché la riforma della Pubblica amministra­zione vada così a rilento.

Con le preoccupaz­ioni sulla prossima tornata elettorale e con l’attesa svolta nella politica della Bce all’orizzonte, la sostenibil­ità del debito pubblico italiano è tornata sotto i riflettori della comunità internazio­nale. Non resta più molto tempo per invertire le attuali tendenze. 7È uno strumento che consente di “depurare” la crescita dell’economia dall’aumento dei prezzi. In questo modo si possono avere informazio­ni anche importanti sulla dinamica dell’inflazione e capirne l’impatto. Poiché il Pil è dato dal prodotto prezzo per quantità, occorre sapere se la crescita da un anno all'altro è data dalla quantità prodotta o dall’aumento dei prezzi. La sua grendezza risulta dal rapporto tra il Pil nominale (quantità per i prezzi correnti) e il Pil reale (quantità per i prezzi costanti).Nel 2016 la dinamica del deflatore del Pil è stata nettamente al di sopra di quella dei prezzi al consumo aiutando la crescita nominale del prodotto interno lordo e l’andmanto del rapporto debiti/Pil

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