L’abuso d’ufficio e il rischio «corto circuito»
Un fedele quanto i ngombrante compagno di viaggio turba i sonni dell’amministratore della cosa pubblica. È il reato di abuso d’ufficio, un incidente di percorso che il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio mettono in conto nell’accidentata quotidianità lavorativa, indipendentemente dalla casacca politica indossata.
Il sospetto di un comportamento illecito genera – complice l’obbligatorietà dell’azione penale prevista in Italia – l’informazione di garanzia, uno strumento difensivo trasformato in atto d’accusa, a sua volta amplificato e tramutato sovente dai media in sentenza di condanna senza appello. Un corto circuito pericoloso per le istituzioni, dal quale la classe politica, dopo il suo uso strumentale, inizia a prendere le distanze, sperimentatone l’effetto perverso, specie con riferimento all’equazione indagato/dimissioni.
In una prospettiva teorica e largamente condivisibile, l’abuso d’ufficio dovrebbe fungere da sentinella dell’imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione (che sono i requisiti fissati in materia dall’articolo 97 della Costituzione) e da spia di potenziali fenomeni corruttivi. Per questo motivo, l’abuso d’ufficio si potrebbe considerare un traino all’interno dei delitti contro la pubblica amministrazione. E infatti i dati lo confermano: nel quinquennio 2004-2009 (periodo del quale si dispone di riscontro empirico, ma il prosieguo non autorizza a inversioni di tendenza significative), le denunce per abuso d’ufficio corrispondono al 29% del totale dei reati contro la pubblica amministrazione, ma le condanne scendono al 22% dei procedimenti penali instaurati.
In altri termini, a fronte di un peso specifico rilevante nella fase dell’input, l’esito consegna un quadro sconsolante quanto a rispondenza della penale responsabilità con il sospetto articolato a monte.
La spiegazione del gap non è agevole e probabilmente è multifattoriale, dall’iperattivismo di certe Procure alle difficoltà probatorie, specie per quanto concerne il dolo intenzionale.
Ma, indipendentemente da ciò, sul banco degli imputati finisce per accomodarsi proprio l’abuso d’ufficio, un reato che continua a cambiare pelle nel corso degli anni. Infatti, la prima riforma del 1990 aveva costruito un reato di pura condotta, che decretava autore chi «abusa del suo ufficio», una formula talmente generica da spingere il legislatore del 1997 a un radicale cambio di rotta, con la trasformazione in reato di evento e soprattutto con la tipizzazione (finalmente) della fattispecie, ancorata allo «svolgimento delle funzioni o del servizio» e alla «violazione di norme di legge o di regolamento».
Un risultato lodevole, nell’intento di recuperare offensività, come del resto riconobbe anche la Corte costituzio- nale. Senonché, il diavolo fa le pentole senza coperchio e, nella prassi, le cose sono andate ben diversamente. Sino a rovesciare completamente la prospettiva di partenza.
Tradotto in parole semplici: la giurisprudenza ha inserito tra le «norme di legge» anche l’articolo 97 della Costituzione, così implicitamente degradando l’abuso nel generico comportamento disfunzionale rispetto a valori – guida che dovrebbero essere tipici della pubblica amministrazione,
LA TEORIA Il reato dovrebbe essere una sentinella di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione
LA PRATICA Nella giurisprudenza prevale la visione di abuso come generica violazione, senza badare alla sua rilevanza
ma soprattutto sancendo l’assoluta indifferenza della tipologia di violazione, indipendentemente dalla rilevanza in concreto assunta.
Ebbene, questa è una deriva inquietante. Non solo perché, con una dose di sano realismo, occorre prendere atto di come, nella sterminata prateria delle leggi e dei regolamenti, equivalga soltanto a una finzione la conoscenza degli stessi.
Ma anche poiché non ogni violazione è sinonimo di «abuso» nel senso penalistico del termine. Infatti, molteplici disposizioni, in alcuni casi risalenti addirittura al periodo ante-Costituzione, non possiedono quella carica di offensività da trattare con il codice penale.
In linea con una politica criminale rispettosa dei valori fondanti dello Stato di diritto, allora, una formula restrittiva del perimetro della tipicità, delimitando la categoria delle violazioni penalmente rilevanti, va fortemente incoraggiata.
Lo stato dell’arte attuale consegna del resto una palude burocratica, nella quale il dipendente pubblico – specie il dirigente – mostra un’indiscriminata riluttanza a far uso del proprio spazio decisionale, nel (purtroppo fondato) timore di incappare in una qualsiasi microviolazione e di lì nell’apertura di un procedimento penale, con l’ulteriore spada di Damocle della sospensione dal servizio in caso di condanna, ancorché non definitiva.
Cosicché, a somiglianza della cosiddetta medicina difensiva, la fuga dal “potere di firma” si traduce in una fuga dalla responsabilità, con l’effetto di incidere negativamente sugli indici di performance dell’operato dell’amministrazione pubblica, un curioso boomerang rispetto al circolo virtuoso che la legge 190/2012 aveva inteso avviare.