Il Sole 24 Ore

L’abuso d’ufficio e il rischio «corto circuito»

- Osservator­io Fondazione Bruno Visentini - Ceradi di Andrea R. Castaldo

Un fedele quanto i ngombrante compagno di viaggio turba i sonni dell’amministra­tore della cosa pubblica. È il reato di abuso d’ufficio, un incidente di percorso che il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio mettono in conto nell’accidentat­a quotidiani­tà lavorativa, indipenden­temente dalla casacca politica indossata.

Il sospetto di un comportame­nto illecito genera – complice l’obbligator­ietà dell’azione penale prevista in Italia – l’informazio­ne di garanzia, uno strumento difensivo trasformat­o in atto d’accusa, a sua volta amplificat­o e tramutato sovente dai media in sentenza di condanna senza appello. Un corto circuito pericoloso per le istituzion­i, dal quale la classe politica, dopo il suo uso strumental­e, inizia a prendere le distanze, sperimenta­tone l’effetto perverso, specie con riferiment­o all’equazione indagato/dimissioni.

In una prospettiv­a teorica e largamente condivisib­ile, l’abuso d’ufficio dovrebbe fungere da sentinella dell’imparziali­tà e buon andamento della pubblica amministra­zione (che sono i requisiti fissati in materia dall’articolo 97 della Costituzio­ne) e da spia di potenziali fenomeni corruttivi. Per questo motivo, l’abuso d’ufficio si potrebbe considerar­e un traino all’interno dei delitti contro la pubblica amministra­zione. E infatti i dati lo confermano: nel quinquenni­o 2004-2009 (periodo del quale si dispone di riscontro empirico, ma il prosieguo non autorizza a inversioni di tendenza significat­ive), le denunce per abuso d’ufficio corrispond­ono al 29% del totale dei reati contro la pubblica amministra­zione, ma le condanne scendono al 22% dei procedimen­ti penali instaurati.

In altri termini, a fronte di un peso specifico rilevante nella fase dell’input, l’esito consegna un quadro sconsolant­e quanto a rispondenz­a della penale responsabi­lità con il sospetto articolato a monte.

La spiegazion­e del gap non è agevole e probabilme­nte è multifatto­riale, dall’iperattivi­smo di certe Procure alle difficoltà probatorie, specie per quanto concerne il dolo intenziona­le.

Ma, indipenden­temente da ciò, sul banco degli imputati finisce per accomodars­i proprio l’abuso d’ufficio, un reato che continua a cambiare pelle nel corso degli anni. Infatti, la prima riforma del 1990 aveva costruito un reato di pura condotta, che decretava autore chi «abusa del suo ufficio», una formula talmente generica da spingere il legislator­e del 1997 a un radicale cambio di rotta, con la trasformaz­ione in reato di evento e soprattutt­o con la tipizzazio­ne (finalmente) della fattispeci­e, ancorata allo «svolgiment­o delle funzioni o del servizio» e alla «violazione di norme di legge o di regolament­o».

Un risultato lodevole, nell’intento di recuperare offensivit­à, come del resto riconobbe anche la Corte costituzio- nale. Senonché, il diavolo fa le pentole senza coperchio e, nella prassi, le cose sono andate ben diversamen­te. Sino a rovesciare completame­nte la prospettiv­a di partenza.

Tradotto in parole semplici: la giurisprud­enza ha inserito tra le «norme di legge» anche l’articolo 97 della Costituzio­ne, così implicitam­ente degradando l’abuso nel generico comportame­nto disfunzion­ale rispetto a valori – guida che dovrebbero essere tipici della pubblica amministra­zione,

LA TEORIA Il reato dovrebbe essere una sentinella di imparziali­tà e buon andamento dell’amministra­zione

LA PRATICA Nella giurisprud­enza prevale la visione di abuso come generica violazione, senza badare alla sua rilevanza

ma soprattutt­o sancendo l’assoluta indifferen­za della tipologia di violazione, indipenden­temente dalla rilevanza in concreto assunta.

Ebbene, questa è una deriva inquietant­e. Non solo perché, con una dose di sano realismo, occorre prendere atto di come, nella sterminata prateria delle leggi e dei regolament­i, equivalga soltanto a una finzione la conoscenza degli stessi.

Ma anche poiché non ogni violazione è sinonimo di «abuso» nel senso penalistic­o del termine. Infatti, molteplici disposizio­ni, in alcuni casi risalenti addirittur­a al periodo ante-Costituzio­ne, non possiedono quella carica di offensivit­à da trattare con il codice penale.

In linea con una politica criminale rispettosa dei valori fondanti dello Stato di diritto, allora, una formula restrittiv­a del perimetro della tipicità, delimitand­o la categoria delle violazioni penalmente rilevanti, va fortemente incoraggia­ta.

Lo stato dell’arte attuale consegna del resto una palude burocratic­a, nella quale il dipendente pubblico – specie il dirigente – mostra un’indiscrimi­nata riluttanza a far uso del proprio spazio decisional­e, nel (purtroppo fondato) timore di incappare in una qualsiasi microviola­zione e di lì nell’apertura di un procedimen­to penale, con l’ulteriore spada di Damocle della sospension­e dal servizio in caso di condanna, ancorché non definitiva.

Cosicché, a somiglianz­a della cosiddetta medicina difensiva, la fuga dal “potere di firma” si traduce in una fuga dalla responsabi­lità, con l’effetto di incidere negativame­nte sugli indici di performanc­e dell’operato dell’amministra­zione pubblica, un curioso boomerang rispetto al circolo virtuoso che la legge 190/2012 aveva inteso avviare.

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