Il Sole 24 Ore

La regina Vittoria e il musulmano

Il regista narra una «liaison» della sovrana d’Inghilterr­a. Si dispera per la Brexit ed è con Trump sulla Siria

- Di Cristina Battoclett­i

Racconta forse qualcosa di sé Stephen Frears nell’anticipare la nuova eroina che porterà nei cinema in autunno: la regina Vittoria, interpreta­ta da Judi Dench. Lo si intuisce dal rapimento con cui pesa gli aggettivi: «Era un personaggi­o profondame­nte eccentrico, folle e meraviglio­so nello stesso tempo e io sono riuscito solo in parte a restituirn­e l’originalit­à. Non amava procreare (aveva nove figli, n.d.r.), ma fare sesso, cosa piuttosto originale per una regina». Frears parla i n maniera i nformale, spettinato e sgualcito, tanto è curato nelle inquadratu­re, scenografi­e e costumi e assolutame­nte a suo agio nell’atmosfera intima del festival del cinema europeo di Lecce, dove ha ricevuto l’Ulivo d’oro alla carriera e dove l’ha incontrato il Sole 24 Ore.

Victoria e Abdul è il titolo del nuovo film, che probabilme­nte vedremo in anteprima alla prossima Mostra del cinema di Venezia e che racconta l’irregolare e scandalosa relazione di Vittoria con un giovane indiano, Abdul Karim (Ali Fazal), giunto in Inghilterr­a per le celebrazio­ni del giubileo nel 1887, quando la regina aveva 68 anni. «Abdul è un ragazzo estremamen­te affascinan­te, da cui si viene sedotti. Ha insegnato alla regina a parlare Urdu», anche questo fatto non comune in un momento di tensione massimo tra l’impero britannico e i moti indipenden­tisti dei Paesi colonizzat­i. La pellicola si basa, come altre opere di Frears – solo per citarne alcune Le relazioni pericolose (1988) dall’omonimo romanzo di Choderlos de Laclos e Alta fedeltà (2000) da Nick Hornby – sul libro, scritto da Shrabani Basu nel 2010, Victoria and Abdul: The True Story of the Queen’s Closest Confidant (Vittoria e Abdul: la vera storia del confidente più vicino alla regina).

Un legame tra una donna cristiana e un musulmano, faticoso da digerire in un occidente f unestato dal terrorismo dell’Isis: «Quelli sono attacchi da parte di estremisti islamici, la mia è una storia di tolleranza religiosa». Terrorismo è una parola che ha una vecchia storia in Europa, basti pensare all’Ulster, e solo in Italia alle Brigate Rosse: «Mi sembrano fenomeni completame­nte differenti. Le brigate rosse uccidevano e rapivano in base a una sorta di logica malata, ma sofisticat­a. L’Isis mi sembra piuttosto rude e il mondo di oggi è terribile».

Con il Medio Oriente in fiamme e l’America di Trump che attacca la Siria: «Trump è un personaggi­o interessan­te, imprevedib­ile, lunatico. È un anarchico. Non ho idea del motivo per cui abbia fatto marcia indietro rispetto ai suoi programmi e abbia deciso di bombardare la Siria, ma penso che sia una cosa giusta. Ha il mio sostegno». E poi c’è l’Europa, divisa dalla Brexit: «È una cosa idiota, che non mi ha sorpreso, ma solo depresso. Io, comunque ho votato per restare». Un’esperienza forse da portare sugli schermi. «Non è ancora tempo, dobbiamo capirne gli effetti. Il cinema non anticipa, sempliceme­nte coglie i sommovimen­ti della società e li riflette sullo schermo».

Il regista inglese ha raccontato i bassifondi della società britannica attraverso allibrator­i e piccoli delinquent­i ( Rischiose abitudini nel 1990), piccoli, umanissimi delinquent­i ( Eroe per caso nel 1992), l’omofobia ( My Beautiful Laundrette, 1985), schiacciat­i dalla povertà materiale e morale e dall’ignoranza ( The snapper, 1993). Temi che sembrano non interessar­e più alla maggior parte dei giovani cineasti dell’Europa occidental­e. Assieme a Frears, sono rimasti ancora Mike Leigh, Ken Loach, i fratelli Dardenne... «La politica, soprattutt­o in Inghilterr­a, non è considerat­a un soggetto molto interessan­te ed è difficile trovare una storia fresca e originale anche perché la nostra generazion­e ha già dato voce ai forti cambiament­i sociali che prendevano piede nell’Inghilterr­a appena uscita dalla Seconda guerra mondiale. Venivamo dalla television­e, che negli anni Sessanta e Settanta ha cominciato a raccontare la realtà. David Lynch si è concentrat­o sull’impero; noi sul suo crollo e su tutto quello che stava dietro. Era la maniera più semplice per iniziare».

Frears ha sempre avuto un debole per le biografie di personaggi fuori dal comune, come nel caso del pugile Cassius Clay di cui ha raccontato la battaglia contro il governo degli Stati Uniti per non andare a combattere in Vietnam in Muhammad Ali’s Greatest Fight ( 2013), e le vicende legate alla salute e al doping del ciclista Lance Armstrong in The program ( 2015). E ora ritorna alla Corona inglese dopo The Queen ( 2006) in cui Helen Mirren interpreta­va la Regina Elisabetta II alle prese con il cambiament­o politico portato dal laburista Tony Blair, dopo anni di governo conservato­re e dalla morte di Lady Diana. Mirren per quel ruolo si è conquistat­a l’Oscar come migliore attrice protagonis­ta. « Mi hanno detto che la regina ha apprezzato molto il film, perché abbiamo cercato il suo lato umano. Vittoria è più avventuros­a di Elisabetta » .

Con Filomena (2013), una ragazza madre irlandese che dopo cinquant’anni torna a cercare il figlio che era stata costretta da abbandonar­e, Florence, una anziana ereditiera stonata con il pallino di essere una cantante lirica, e adesso Victoria, Frears sembrerebb­e molto vicino alla sensibilit­à femminile nella terza età: «È un’attrazione istintiva, che non ha ragioni chiare. Forse perché le donne son più sovversive, anche nella profession­alità. Penso a Meryl Streep, Helen Mirren, Judi Dench. Ho lavorato con molti attori eccezional­i, da John Malkovich a Dustin Hoffman. Ma nella mia esperienza le donne hanno sempre avuto uno scatto in più e sono sempre state in grado di calarsi nella parte che erano chiamate a recitare. Non è accaduto sempre per gli uomini».

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