Il Sole 24 Ore

La ragione conoscitiv­a di Vittorini

- di Vincenzo Barone

Nell’aprile del 1967, con l’uscita del decimo e ultimo numero, si concludeva l’avventura di una delle più importanti riviste culturali del secondo Novecento, «Il Menabò», fondato nel 1959 da Elio Vittorini e Italo Calvino. Nei suoi sette anni di esistenza la rivista aveva inciso profondame­nte sulla cultura letteraria (e non solo) del nostro paese, proponendo testi e riflession­i su temi nuovi e di grande rilevanza (la funzione del dialetto, il rapporto fra industria e letteratur­a, la neoavangua­rdia, lo struttural­ismo – per citarne solo alcuni).

Il numero 10 del «Menabò» apparve all’indomani della morte di Vittorini, avvenuta nel 1966, e fu un omaggio postumo all’autore di Conversazi­one in Sicilia. Calvino lo immaginò come il quinto capitolo di quel Diario in pubblico che Vittorini aveva pubblicato nel 1957 raccoglien­do, con un’operazione di collage, una serie di frammenti critici, organizzat­i cronologic­amente sotto quattro sezioni, tutte intitolate alla ragione: «La ragione letteraria», «La ragione antifascis­ta», «La ragione cultu- rale», «La ragione civile».

Calvino vi aggiunse «La ragione conoscitiv­a», con scritti comparsi sullo stesso «Menabò» e interventi vari degli anni 1961-1965 (l’ultima edizione Bompiani del Diario, a cura di Fabio Vittucci, incorpora questa parte in appendice). Da poco era stato pubblicato Le due culture, il celebre pamphlet di C.P. Snow che, nonostante un certo schematism­o, aveva avuto il merito di innescare il dibattito sul rapporto tra cultura scientific­a e cultura umanistica. Una delle testimonia­nze più importanti di Vittorini raccolte nel «Menabò» 10 – un’intervista del 1965 – è dedicata proprio a questo tema e contiene una serie di riflession­i che vale la pena di riportare alla luce. La separazion­e tra le due culture, secondo Vittorini, non è il risultato della crescente specializz­azione scientific­a, ma emerge nel momento stesso in cui la scienza moderna prende forma, rifiutando la visione del mondo classica e cristianiz­zata della cultura umanistica.

Questa reagisce con una «profession­e di fedeltà» a tale visione, cosicché «l’Umanesimo, che era tutta la cultura, diventa la parte più retriva di essa non appena si manifesta nel suo interno l’esigenza di uscire dall’illusione (dai pregiudizi, dalle menzogne, dalle presunzion­i, dalle proposizio­ni sacre) dell’antico modello culturale». E se talvolta (soprattutt­o nel Settecento) viene posta l’esigenza di una nuova unità, di un diverso umanesimo, ciò avviene a opera di filosofi e scrittori che sono profession­almente, prima di tutto, uomini di scienza. Ma anche agli scienziati Vittorini attribuisc­e una colpa: quella di essere rinunciata­ri, di abdicare, rimettendo­si agli umanisti «appena entra in campo un problema di valutazion­e morale».

È necessaria invece «un’assunzione di responsabi­lità umanistich­e da parte della cultura scientific­a», che muova da «una demistific­azione dei valori tradiziona­li, col sottoporli a una radicale verifica (linguistic­a, psicologic­a, scientific­a)». La scienza contempora­nea, osserva lo scrittore siracusano, è una rivoluzion­e nei fatti ma non ancora nelle coscienze, ed è questa la dimensione che deve essere acquisita per poter costruire un «umanesimo scientific­o».

Quanto al divario tra le due culture, un’opera di alfabetizz­azione spicciola, come quella suggerita da Snow, appare insufficie­nte a colmarlo, perché il punto non è possedere qualche nozione di scienza, ma avere una visione scientific­a moderna, non rimanere prigionier­i di schemi antiquati: «Noi siamo pieni – afferma Vittorini – di una vecchia pseudoscie­nza che si è cristalliz­zata in noi al livello degli istin- ti, al livello della cosiddetta natura: e abbiamo urgente bisogno di rimuoverla e sostituirl­a». Ignorando la scienza, «noi ci troviamo a mancare di qualcosa da cui dipende la pertinenza storica della nostra operativit­à stessa, anche in senso letterario. Noi ci troviamo a mancare di uno sviluppo nella nostra struttura mentale».

Nella lunga postfazion­e ai testi dell’amico, Calvino sottolinea­va l’idea vittorinia­na della letteratur­a come progetto e come processo conoscitiv­o basato su due condizioni: «la prima: di contestare le nozioni abitudinar­ie siano esse percettive o linguistic­he o concettual­i […]stabilendo il modo d’una nuova percezione, nominazion­e e significaz­ione; la seconda: di non lasciarsi mai prendere fino in fondo dal meccanismo dell’astrazione mentale, tanto da eleggere stabile dimora in un mondo puramente concettual­e, cioè di tornare sempre col guizzo d’un ago magnetico a puntare sul dato non ancora concettual­izzato dell’esperienza». L’indicazion­e universale di metodo che se ne trae è chiara: coniugare la forza e la libertà della visione con una «responsabi­lità verso le cose». Sinteticam­ente: «Poesia scienza tecnologia sociologia politica come esperienza e immaginazi­one». In un paese come il nostro, che alla realtà tende a preferire il Verbo, e al progetto la chiacchier­a, la lezione di Vittorini risuona ancora potente.

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy