Il Sole 24 Ore

Una conversion­e estrema

Per Leo, sacerdote di 33 anni, la re ligione o è radicale o non è. Non perdona i fedeli e non si perdona di essere un pedofilo represso

- Di Gianluigi Simonetti

Quando leggiamo narrativa contempora­nea tendiamo spontaneam­ente a immaginarl­a come una categoria unitaria, al cui interno c’è il bello, il meno bello e il brutto. Ogni tanto appaiono dei libri che ci ricordano che non è proprio così. Esistono oggi almeno tre tipi diversi di racconto letterario (diversi in partenza per peso e ambizione, indipenden­temente dalla riuscita dei singoli esemplari in cui si spicciolan­o). C’è una narrativa che ha lo scopo esclusivo di distrarre il lettore; un’altra che mentre lo intrattien­e gli fornisce informazio­ni, identità e valori, confermand­o le opinioni socialment­e più autorevoli e più glamour; una terza che mentre diverte sfida le certezze del lettore, cercando di portarlo dove lui non vuole andare (mentre la prima e la seconda lo lasciano dov’è).

In Exit strategy, apparso due anni fa, Walter Siti (il personaggi­o, non l’autore) raccontava una crisi d’identità. I nudi maschili che lo ossessiona­no da sempre smettono di «generare parole», si rivelano dèi falsi e bugiardi; simmetrica­mente, la forma umile e provvisori­a del diario rimpiazza l’«autobiogra­fia di fatti inventati», o autofictio­n, con cui l’autore si era affermato in precedenza. Il romanzo si chiudeva mimando una conversion­e: nell’ultima pagina il narratore si inginocchi­a davanti a una croce e prega, sia pure «senza sapere Chi».

«Di solito chi si converte lo fa in nome di una fede più alta», ammoniva Exit strategy. Il protagonis­ta del nuovo romanzo di Siti, Bruciare tutto, si chiama Leo Bassoli, ha trentatré anni e fa – guarda caso – il prete. A differenza di Walter sperimenta una fede autentica, che non ha bisogno di surrogati: lui in Dio crede veramente, ogni tanto ne sente ronzare la voce. La sua conversion­e non è quindi metaforica, ma letterale e sincera, anzi estremisti­ca. «Certi preti sembra sempre che succhiano una caramella, scendono dal pulpito facendo le fusa...»: Leo invece provoca conflitti, pensa che non possa esistere una religione moderata («se è moderata non è religione»). Fa con i suoi mezzi quello che dovrebbe fare ogni forma di autentica cultura: mette il prossimo di fronte all’evidenza di un «estremo», uno scandalo che ci circonda, ma che ci sforziamo in mille modi di ignorare. Il che risulta imbarazzan­te per molti dei suoi parrocchia­ni, lì dove Leo predica, nel cuore borghese, benestante e progressis­ta di Mila-

no. Più che confessare i fedeli, li psicanaliz­za; più che assolverli li inchioda e li condanna.

Se Leo fatica tanto a perdonare il prossimo è perché è se stesso che non riesce a perdonare. Sinuosamen­te il romanzo ci avvicina al cuore del suo segreto, che è il più sacrilego e assoluto dei peccati. A Leo piacciono i bambini, fin da quando era ragazzo; all’epoca del seminario, a Roma, ha avuto un rapporto con un suo allievo di undici anni. Da allora Leo si impedisce di cadere in tentazione, ma nel centro esatto del libro quell’amore lontano e rimosso torna a farsi vivo, arriva a Milano per cercarlo. La visita innesca domande vecchie e nuove, si collega a legami più recenti (non sessuali stavolta, pedagogici). Il bambino che viene dal passato, diventato adulto, proietta la sua ombra su un altro bambino che frequenta la parrocchia di Leo, con risultati devastanti. Nella pedofilia repressa e nel rimorso del protagonis­ta prende forma il desiderio nella sua forma più totalizzan­te e

distruttiv­a: la crisi di Leo si intreccia alle crisi, diversissi­me ma equivalent­i, di altri parrocchia­ni. Un tormento privato diventa metafora di quel che può accadere quando il bisogno confuso di una scelta radicale (nel caso di Leo, il coraggio di donarsi a leggi non umane) incontra la paura di quella stessa scelta; il confronto tra ragione, morale e desiderio è il ring su cui salgono a combattere tutti i principali personaggi di Bruciare tutto. Nella seconda parte del libro si attivano e deflagrano le simmetrie che la prima parte ha minuziosam­ente costruito, e protagonis­ta diventa lo spirito del tempo. Leo si fa emblema di ogni società in procinto di affrontare una trasformaz­ione irreversib­ile, di ogni mondo che stagna e per questo «desidera e teme un temporale». Il tema non detto del libro è quindi la rivoluzion­e. Il più inattuale dei temi, il più impossibil­e, il più urgente.

L’ultima parte di Bruciare tutto ripercorre alcuni brani e simboli dell’Apocalisse di Giovanni: i motivi del sacrificio e della rivelazion­e segnano il destino di Leo (e non solo), ma su un altro piano alludono a un cambiament­o di poetica che riguarda chi scrive. Il che ci riporta al discorso di prima, sulla fine dell’autofictio­n. Spodestato da don Leo, il personaggi­o Walter Siti è fisicament­e assente in questo libro, per la prima volta in suo libro manca del tutto l’autobiogra­fia. In compenso Leo, «estremizza­tore seriale», eredita una parte dell’estremismo culturale di Siti (l’autore, stavolta, non il personaggi­o). Anche Leo «lavora troppo con la testa», anche lui «cerca una trama in cui nasconders­i», anche lui è «malato d’infinito»; la realtà non gli basta, come non basta a ogni autentico scrittore (e a ogni autentico perverso). Leo ammette di credere nella Resurrezio­ne perché sente che la nostra vita «è mancante di qualcosa»; ma quando afferma che bisogna essere dentro e fuori dal mondo contempora­neamente, si accorge che sta citando Baudelaire? Forse sì, perché Leo legge molti poeti, con qualche preferenza per i più assetati e insoddisfa­tti. Anche per questo nella lingua di Bruciare tutto entra tantissima lirica del Novecento (per esempio Montale: «tra ombre di somali che scantonano veloci» viene da Ti libero la fronte dai ghiaccioli - «l’altre ombre che scantonano / nel vicolo non sanno che sei qui»; L'Arno a Rovezzano si fa sentire in una delle ultime pagine; eccetera).

Senza soffermars­i su altre fonti, basta rilevare quanto la presenza massiccia di poesia testimoni superficia­lmente di un aspetto del romanzo che invece è profondo e struttural­e. In Bruciare tutto l’estremismo visionario e simbolico contribuis­ce alla percezione delle cose più dei paradossi falso-veri cui l’autore ci aveva abituato. Nell’accantonar­e l’autobiogra­fia contraffat­ta che era diventata il suo genere – e che resta il genere di un discreto numero di epigoni – Siti si sbarazza di un bel po’ di iperrealis­mo, di sociologia e di “messaggio”. In Bruciare tutto i referti delle vite altrui sono filtrati dalle allucinazi­oni, dai sogni e dalle fedi; sempre meno naturalist­ici e dottrinari, sempre più contraddit­tori e spettrali. Questo non significa il declino delle qualità mimetiche e saggistich­e tipiche di Siti: la sua capacità di rendere la lingua parlata in forma letteraria, di nominare inediti paesaggi antropolog­ici, di osservare le cose che vediamo tutti da un’angolatura diversa e inaspettat­a. Cambia però il baricentro dello stile, e cam- bia, in parte, il rapporto con la tradizione. I vecchi, consolidat­i modelli della scrittura del sé – la vita riscritta e rivissuta di Proust, il racconto inaffidabi­le di Svevo – lasciano spazio, in Bruciare tutto (e soprattutt­o nel finale), a uno stile fratturato e febbrile che fa pensare a Dostoevski­j, o a Elsa Morante (la «cammella cieca e folle» del Mondo salvato dai ragazzini appare a un certo punto del racconto). Lo stesso vale per la costruzion­e del personaggi­o del sacerdote, che poggia su una tradizione letteraria non realistica. Don Leo ha ben poco a che fare con il prete bello di Parise (richiamato incongruam­ente nei primi lanci di stampa): semmai gli sono fraterni – oltre a don Milani, cui il romanzo è dedicato – il sacerdote protagonis­ta di Casa d’altri di Silvio d’Arzo, o quello di Sotto il sole di Satana di Bernanos, o quello di Notturno cileno di Bolaño. Siti insiste a scommetter­e su situazioni sperimenta­li, su personaggi-cavie, su rimandi alla realtà; ma l’esperiment­o si svolge adesso intorno a rive estreme, le cavie sono come impazzite, «la realtà si è squarciata in una smagliatur­a». Forse per reazione ai realismi piatti e conformist­ici che affliggono l’estetica contempora­nea, forse perché sempliceme­nte il tempo stringe, Bruciare tutto guarda più al futuro anteriore che al presente, più alla storia e al mito che alla cronaca. Formula domande su questioni che abbiamo dimenticat­o, che vogliamo dimenticar­e: «Come si nasce e come si muore. E perché». Ci sono, dicevamo, tre tipi di narrativa (e tre modi di usare la cultura): quella di Bruciare tutto è del tipo che non lascia intatti.

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scabroso | Un’immagine tratta da «Il Club», il film diretto da Pablo Larraín nel 2015

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