Economia delle riunioni in albergo
Adifferenza di quanto accade in Nord Europa - nei Paesi di lingua tedesca soprattutto, ma anche più in alto -, in Italia continua a latitare il grande romanzo borghese. Non che siano mancati libri sul ceto medio, ma spesso si è trattato di narrazioni che eleggevano a protagonista una certa borghesia impiegatizia, mediocre nelle scelte e nei gusti, intorpidita e pruriginosa, quella che Alberto Moravia, con insospettabile chiaroveggenza, avrebbe assimilato alle atmosfere romane d’inizio fascismo.
Se è esistita una borghesia nel nostro Novecento, probabilmente bisogna riscontrare nella matrice dell’indifferenza i tratti della sua fisiognomica letteraria. Sonnolenti sono i personaggi di Moravia, addormentata è la provincia che Michele Prisco ha raccontato agli esordi della sua avventura di narratore, nel 1949. Questa immagine purtroppo urta vistosamente contro la tradizione mitteleuropea, che di quella classe ha raccontato successi e fallimenti, pregi e difetti, dandoci però un quadro esemplare di cosa abbia significato obbedire alla legge del self made man. Nulla conta che in Italia Manzoni e Verga avrebbero potuto fondare di sana pianta il vero romanzo borghese. Il primo l’aveva intuito, facendo crescere economicamente il personaggio di Renzo da operaio filatore a padroncino bergamasco, ma poi si era occupato d’altro. Il secondo, assai più corrosivo, aveva innal- zato il suo Gesualdo Motta da apprendista a mastro, ma poi gli aveva fatto commettere un errore clamoroso e inaspettato: quello di volersi imparentare con i nobili, più poveri di lui ma con il blasone.
Manzoni e Verga avrebbero potuto, appunto, e non lo hanno fatto. E si continua ancora a discutere sulle sorti di questo genere mai decollato, nonostante le imprese industriali che il nostro Paese ha espresso negli ultimi cento anni, nonostante le grandi famiglie di imprenditori - dagli Agnelli ai Pirelli, dai Falck ai Florio -, la cui storia attende ancora di essere raccontata alla maniera di Thomas Mann. Cito non a caso il nome dello scrittore tedesco, autore dei Buddenbrook, l’unico libro citato nel romanzo di Marco Weiss, quasi fosse una strizzatina d’occhio, una spia d’allerta, al cui immaginario ricorrere per comprendere chi siano veramente i calabroni, di cui recita il titolo. Non sono una famiglia certo, ma hanno qualcosa di familistico nei tratti dei loro comportamenti, qualcosa che li accorpa nei modi di intendere il lavoro su cui si giocano le sorti del quotidiano: parlo delle multinazionali, naturalmente, i cui destini vengono gestiti da manager spericolati e volgari, dediti esclusivamente a smembrare e ad accorpare aziende, a muoversi con le leggi di un branco intristito dalla miseria morale e a cui il lusso sembra non aver aggiunto nemmeno un grammo di bellezza. Il romanzo di Weiss salta il fossato del romanzo borghese probabilmente perché di quella borghesia non c’è più nulla da raccontare se non le forme degenerative, che sono esattamente gli atteggiamenti di questi calabroni. I quali ci sono stati restituiti dalla cronaca degli ultimi anni nella maniera peggiore fino al punto da sembrare il racconto di un oggi a noi fin troppo vicino, nonostante i fatti appartengano a una stagione ormai remota: quella che, da quando crolla il muro di Berlino, arriva alla discesa in campo di Silvio Berlusconi.
Weiss si muove a proprio agio dentro gli hotel dove i manager organizzano incontri e riunioni, riproduce il l oro sgangherato slang che in apparenza fa pensare alla libertà con cui essi praticano conteggi alla leggera ed è invece il segnale di una grammatica senza regole e senza ordine. Come l’economia di quei tempi. Come la finanza, che è più corrosiva dei vermi, più astuta delle piattole, ma ha il potere di fare e disfare, di succhiare e di sputare, traducendo tutto in opportunità, in controllo, salvo poi far scivolare il mondo sull’orlo di un abisso e dimenticarlo lì.
Manager spericolati e volgari, dediti esclusivamente a smembrare e ad accorpare aziende: sono loro «i calabroni» della storia di Marco Weiss