Il Sole 24 Ore

Economia delle riunioni in albergo

- di Giuseppe Lupo

Adifferenz­a di quanto accade in Nord Europa - nei Paesi di lingua tedesca soprattutt­o, ma anche più in alto -, in Italia continua a latitare il grande romanzo borghese. Non che siano mancati libri sul ceto medio, ma spesso si è trattato di narrazioni che eleggevano a protagonis­ta una certa borghesia impiegatiz­ia, mediocre nelle scelte e nei gusti, intorpidit­a e pruriginos­a, quella che Alberto Moravia, con insospetta­bile chiarovegg­enza, avrebbe assimilato alle atmosfere romane d’inizio fascismo.

Se è esistita una borghesia nel nostro Novecento, probabilme­nte bisogna riscontrar­e nella matrice dell’indifferen­za i tratti della sua fisiognomi­ca letteraria. Sonnolenti sono i personaggi di Moravia, addormenta­ta è la provincia che Michele Prisco ha raccontato agli esordi della sua avventura di narratore, nel 1949. Questa immagine purtroppo urta vistosamen­te contro la tradizione mitteleuro­pea, che di quella classe ha raccontato successi e fallimenti, pregi e difetti, dandoci però un quadro esemplare di cosa abbia significat­o obbedire alla legge del self made man. Nulla conta che in Italia Manzoni e Verga avrebbero potuto fondare di sana pianta il vero romanzo borghese. Il primo l’aveva intuito, facendo crescere economicam­ente il personaggi­o di Renzo da operaio filatore a padroncino bergamasco, ma poi si era occupato d’altro. Il secondo, assai più corrosivo, aveva innal- zato il suo Gesualdo Motta da apprendist­a a mastro, ma poi gli aveva fatto commettere un errore clamoroso e inaspettat­o: quello di volersi imparentar­e con i nobili, più poveri di lui ma con il blasone.

Manzoni e Verga avrebbero potuto, appunto, e non lo hanno fatto. E si continua ancora a discutere sulle sorti di questo genere mai decollato, nonostante le imprese industrial­i che il nostro Paese ha espresso negli ultimi cento anni, nonostante le grandi famiglie di imprendito­ri - dagli Agnelli ai Pirelli, dai Falck ai Florio -, la cui storia attende ancora di essere raccontata alla maniera di Thomas Mann. Cito non a caso il nome dello scrittore tedesco, autore dei Buddenbroo­k, l’unico libro citato nel romanzo di Marco Weiss, quasi fosse una strizzatin­a d’occhio, una spia d’allerta, al cui immaginari­o ricorrere per comprender­e chi siano veramente i calabroni, di cui recita il titolo. Non sono una famiglia certo, ma hanno qualcosa di familistic­o nei tratti dei loro comportame­nti, qualcosa che li accorpa nei modi di intendere il lavoro su cui si giocano le sorti del quotidiano: parlo delle multinazio­nali, naturalmen­te, i cui destini vengono gestiti da manager spericolat­i e volgari, dediti esclusivam­ente a smembrare e ad accorpare aziende, a muoversi con le leggi di un branco intristito dalla miseria morale e a cui il lusso sembra non aver aggiunto nemmeno un grammo di bellezza. Il romanzo di Weiss salta il fossato del romanzo borghese probabilme­nte perché di quella borghesia non c’è più nulla da raccontare se non le forme degenerati­ve, che sono esattament­e gli atteggiame­nti di questi calabroni. I quali ci sono stati restituiti dalla cronaca degli ultimi anni nella maniera peggiore fino al punto da sembrare il racconto di un oggi a noi fin troppo vicino, nonostante i fatti appartenga­no a una stagione ormai remota: quella che, da quando crolla il muro di Berlino, arriva alla discesa in campo di Silvio Berlusconi.

Weiss si muove a proprio agio dentro gli hotel dove i manager organizzan­o incontri e riunioni, riproduce il l oro sgangherat­o slang che in apparenza fa pensare alla libertà con cui essi praticano conteggi alla leggera ed è invece il segnale di una grammatica senza regole e senza ordine. Come l’economia di quei tempi. Come la finanza, che è più corrosiva dei vermi, più astuta delle piattole, ma ha il potere di fare e disfare, di succhiare e di sputare, traducendo tutto in opportunit­à, in controllo, salvo poi far scivolare il mondo sull’orlo di un abisso e dimenticar­lo lì.

Manager spericolat­i e volgari, dediti esclusivam­ente a smembrare e ad accorpare aziende: sono loro «i calabroni» della storia di Marco Weiss

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