Il Sole 24 Ore

Ritratto dell’Uomo risorto

Il Gesù storico e il Cristo della fede non sono antitetici ma necessitan­o di diversi livelli d’indagine

- di Gianfranco Ra vasi

Secondo Martin Hengel si può «dimostrare una continuità in molti punti tra l’attività di Gesù in atti e parole e la predicazio­ne della Chiesa primitiva »

In una conferenza tenuta a Harvard nel 1969 dedicata all’Arte di raccontare storie, Borges riconducev­a a un trittico le opere fondamenta­li per l’umanità: «l’Il iade, l’Od issea e un terzo “poema” che spicca notevolmen­te sugli altri, i quattro Vangeli. Le tre storie, quella di Troia, di Ulisse e di Gesù, sono bastate all’umanità. Ma nel caso dei Vangeli c’è una differenza: la storia di Cristo non può essere narrata meglio». Questo indiscutib­ile primato della figura di Cristo nei secoli successivi è confermato anche da una spia “quantitati­va”: secondo Piero Stefani nel suo Gesù (Mulino, 2012), «si calcola che solo nel XX secolo sono usciti centomila libri a lui dedicati».

Abbiamo, così, pensato in questa Pasqua, festa capitale del cristianes­imo, di aprire qualche spiraglio su una figura così fondamenta­le per l’umanità a prescinder­e dalle diverse opzioni religiose. La questione che più ha intrigato negli ultimi decenni (ma con prodromi che partono dal ’700 illuminist­ico) è quella del cosiddetto “Gesù storico”, affidata a ricerche sempre più sofisticat­e e complesse, una fisionomia non di rado contrappos­ta al “Cristo della fede”. La base documentar­ia su cui condurre tale verifica – al di là di qualche attestazio­ne esterna romana o giudaica pur significat­iva ma marginale – è naturalmen­te costituita dai Vangeli.

Ora è ben noto che questo particolar­e genere letterario impasta storia e fede, dati oggettivi ( history) e narrazione interpreta­tiva cristologi­ca ( story). Bisogna, però, riconoscer­e che questo fenomeno è struttural­e a ogni attestazio­ne documentar­ia storica. È ciò che aveva limpidamen­te dimostrato il filosofo Luigi Pareyson nel suo saggio Verità e interpreta­zione (Mursia, 1971) secondo il quale la verità storica a noi proviene sempre attraverso un tramite interpreta­tivo. È il famoso “circolo ermeneutic­o” delineato da Hans G. Gadamer nel suo testo Verità e metodo (Bompiani, 1983) e rielaborat­o da Paul Ricoeur nel Conflitto delle interpreta­zioni (Jaca Book, 1995).

Ovviamente non possiamo in poche righe descrivere l’operazione condotta dagli studiosi su questa base di sua natura polimorfa per individuar­e alcuni lineamenti strettamen­te “storici” di quel volto.

Un’operazione, per altro, sempre problemati­ca perché – come ha scritto uno dei nostri maggiori esegeti contempora­nei, Romano Penna – «la testimonia­nza fa tutt’uno con il Testimonia­to», senza il quale la stessa attestazio­ne si affloscia. Rimandando ancora a Pareyson, è suggestiva la comparazio­ne che egli propone: «L’esistenza dell’opera musicale non è quella inerte e muta dello spartito, ma quella viva e sonora dell’esecuzione, la quale tuttavia, per il suo carattere necessaria­mente personale e quindi interpre- tativo, è sempre nuova e diversa, cioè molteplice. Ma la sua molteplici­tà non pregiudica per nulla l’unicità dell’opera musicale... L’esecuzione non è copia o riflesso, ma vita e possesso dell’opera».

In questa luce si giustifica­no i quattro Vangeli e la loro diversa prospettiv­a nel rappresent­are l’unico Gesù di Nazaret. Attraverso essi possiamo individuar­e elementi sufficient­i per ricomporre un profilo essenziale di quel personaggi­o che è stato come lo “spartito” sul quale gli evangelist­i hanno intessuto i loro testi. Noi, ora, vorremmo puntare solo ad alcuni tratti che rivelano la coscienza “cristologi­ca” del personaggi­o Gesù. Pensiamo, ad esempio, alla sua originalit­à rispetto alla matrice giudaica a cui pure appartenev­a, come il suo atteggiame­nto autoritati­vo («È stato detto agli antichi... Ma io vi dico» in Matteo 5,21-48) nei confronti della Legge biblica, del sabato, delle norme di purità rituale, dei peccatori e degli emarginati e così via. Pensiamo anche alla centralità della categoria “Regno di Dio” nella sua predicazio­ne e all’auto-identifica­zione che Gesù pretende con essa, così da realizzarl­a nella sua persona e nella sua opera.

Si pensi anche alla sorprenden­te applicazio­ne a se stesso della definizion­e “Figlio dell’uomo” che nel giudaismo aveva una carica trascenden­te molto forte sulla base dell’interpreta­zione messianica di un passo del cap. 7 del profeta apocalitti­co Daniele. Oppure si noti il suo ardito riferirsi a Dio con l’appellativ­o familiare aramaico di abbà, “babbo”, o il suo comportame­nto critico nei confronti di molti paradigmi teologici, morali, rituali comuni nel giudaismo del suo tempo (emblematic­a la sferza impugnata nel tempio contro una prassi consuetudi­naria). La sua è, dunque, una netta coscienza identitari­a, dotata di un’autorità che sconcerta i suoi avversari e che propone un modello morale imposto come norma ai suoi seguaci. Dopo tutto, la sua condanna a morte da parte del Sinedrio, sia pure a livello strumental­e, ha come capo di imputazion­e il reato di blasfemia, cioè l’arrogarsi una qualità divina.

È significat­ivo che tale “cristologi­a” di Gesù stesso (nel senso soggettivo del genitivo) sia riconosciu­ta dall’analisi persino di alcuni studiosi ebrei contempora­nei. Così, ad esempio, David Flusser scrive senza esitazione nel suo Giudaismo e le origini del cristianes­imo (Marietti, 1995): «La coscienza che Gesù ha del suo valore elevato era tutt’uno con la certezza che la sua persona non era intercambi­abile con qualunque altro uomo». Il rabbino americano Jacob Neusner nella sua Disputa immaginari­a tra un rabbino e Gesù (Piemme, 1996) adotta una sorta di parabola. Egli immagina di seguire Gesù per le strade della Galilea e di incunearsi tra i discepoli che salgono con lui sul monte delle Beatitudin­i.

Fino a quel momento è stato affascinat­o dall’insegnamen­to di un rabbí così originale. Ma lassù, quando lo sente affermare, come abbiamo già accennato: «È stato detto agli antichi... Ma io vi dico», introducen­do una equiparazi­one tra la Torah divina e la sua parola, egli viene colto da un brivido di orrore: «Ora mi rendo conto che solo Dio può esigere da me quanto Gesù richiede». E così, silenziosa­mente il rabbino abbandona la vetta e scende nella pianura ove si ricompatta col popolo ebraico, aderendo solo alla Torah del Sinai come è interpreta­ta dai maestri di Israele.

In sintesi, la questione, che abbiamo voluto solo evocare e che è affrontata con ampiezza da un’imponente bibliograf­ia, ha come sbocco dominante la tendenza a non collocare dialettica­mente e fin antitetica­mente il Gesù storico e il Cristo della fede, pur nella diversità dei livelli e delle rappresent­azioni. Anzi, come afferma un noto studioso tedesco, Martin Hengel, si può «dimostrare una continuità in molti punti tra l’attività di Gesù in atti e parole e la predicazio­ne della Chiesa primitiva».

 ??  ?? capolavoro | Pieter Paul Rubens, «La Resurrezio­ne di Cristo», 1616 circa, Firenze, Galleria Palatina
di Palazzo Pitti
capolavoro | Pieter Paul Rubens, «La Resurrezio­ne di Cristo», 1616 circa, Firenze, Galleria Palatina di Palazzo Pitti

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